Page 107 - Oriana Fallaci - Solo io posso scrivere la mia storia
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Uno  può  tirare  fuori  il  problema  della  fedeltà.  Per  quel  che  mi  riguarda

          personalmente,  lo  sento  molto.  Sono  una  donna  che,  finché  dura  il  suo  legame,  è
          fedele.  E  senza  fatica.  Ma  sollevare  il  problema  nel  caso  della  donna  nubile  mi
          sembra artificiale giacché il matrimonio non garantisce affatto la fedeltà. Se una vuol
          fare ciò che con dubbio gusto viene chiamato corna, lo fa anche se è sposata.
               È  la  convivenza  forzata  del  matrimonio  che  io  respingo.  E  qui  devo  fare  un
          discorso proprio femminista, cioè un discorso che viene a onore degli uomini.  La

          convivenza con un uomo, il più amato, il migliore, è una pena insopportabile per una
          donna moderna cioè una donna che non sia una donna schiava o come si usa dire oggi
          una donna oggetto. Proprio per la ineducazione degli uomini, in quel loro cercare una
          mamma in ogni donna e soprattutto nella donna che sposano o con cui convivono. Ciò
          rimane anche nei brevi incontri ripetuti, d’accordo (io inorridisco quando vado dal
          mio compagno e vedo il disordine eccetera. E mi metto subito a fare ordine e pulire
          un po’. Mi viene spontaneo, e poi è un fatto egoistico visto che lì per qualche tempo

          anche pochi giorni devo starci anch’io e non mi va di vivere in quel caos. Però è per
          poco. Non lo devo fare tutti i giorni che dio manda in terra).         21


          Senza dubbio, in un passato che ora mi sembra remoto come la preistoria, pensai
          anch’io di sposarmi. Parlo dei miei quindici, diciotto anni. Tuttavia è strano: più il

          ricordo fruga in quella stagione, meno vi trovo la parola matrimonio. Già da bambina
          essa  mi  incuteva  un  misterioso  fastidio  come  le  parole  moglie,  marito,  fidanzato,
          fidanzata. Ciò  che  volevo  da  bambina,  suppongo,  era  un  uomo  da  amare  e  da  cui
          essere amata per sempre: come nelle fiabe. Ma nella fiaba avvertivo una specie di
          minaccia,  un  rischio  mortale:  e  se  quest’uomo  m’avesse  requisito  alla  vita?  Non
          sono  mai  stata  un  animale  domestico.  Non  mi  sono  mai  vista  chiusa  a  chiave  nel
          piccolo cosmo della famiglia.  Il mestiere di moglie mi ha sempre inorridito.  Non

          volevo fare la moglie. Volevo scrivere, viaggiare, conoscere il mondo e sfruttare il
          miracolo d’essere nata. Quasi ciò non bastasse, l’idea di rinunciare al mio nome per
          prendere  quello  di  un  uomo  mi  riempiva  di  indignazione.  Rinunciarvi  perché?
          Annullarsi  in  tal  modo  perché?  Io  ero  mia.  Sia  pure  confusamente,
          inconsapevolmente,  penso  d’essere  stata  una  femminista ante  litteram.  Del  resto
          sapermi donna in una società inventata e determinata dagli uomini non mi ha mai dato

          complessi di inferiorità, non ha mai posto limiti ai miei programmi e ai miei sogni.
          Al contrario, li ha provocati ed accesi. In una specie di scommessa, di sfida.
               La mia prima giovinezza si consumò in quella sfida. Ossessionata dal timore di
          venir presa al laccio e neutralizzata da una museruola, me ne andai per anni come un
          cane senza medaglia: libero e ringhioso.  Respingevo chi si innamorava di me, mi
          proibivo di innamorarmi. E certo soffrii, feci soffrire: ma non gettai l’àncora. Non la
          gettai nemmeno quando mi regalai al primo amore. Del resto il mio primo amore non

          fu  gioioso.  Servì  solo  a  farmi  intuire  che  amare  significa  costituirsi  coi  polsi
          ammanettati  e  che  la  retorica  dello  stesso  verbo  è  un  imbroglio.  L’intuizione  mi
          indurì. Per anni non permisi più a nessuno d’esser mio carceriere e gli aerei furono i
          complici più fedeli delle mie fughe.  Fuggire non mi costava troppa fatica, spesso
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