Page 94 - Oriana Fallaci - Solo io posso scrivere la mia storia
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come lui. Non sono un’opera di beneficenza. Specialmente quando la beneficenza è
immeritata.
Non sono una donna che ama mettersi in mostra ma sono una donna che ama
proteggersi. Anche per questo rifiutai la candidatura al Senato nelle ultime elezioni
[del 1976, N.d.R.]. Dovevo esser candidata indipendente nelle liste del partito
socialista. E all’inizio volevo farlo, ben sapendo che col mio nome sarei stata
sicuramente eletta. Mi piaceva l’idea di continuare al parlamento italiano ciò che
Alekos aveva fatto al parlamento greco. Ma l’idea che si volesse sfruttare il mio
nome mi trattenne.
Sul successo
Io non ho mai cercato il successo. È stato il successo a cercare me e aggredirmi
con prepotenza e violenza. Quando questo avvenne, ormai dieci o quindici anni fa, io
non me ne accorsi nemmeno. Per un tempo lunghissimo vissi nella convinzione che
nessuno mi conoscesse. Eppure i miei libri si vendevano già e i miei articoli erano
già molto letti. La consapevolezza che io esistevo al di fuori di me stessa, cioè anche
attraverso il successo, mi giunse dopo il Vietnam. E il libro sulla guerra in Vietnam.
E poi con le prime interviste ai capi di stato. Parlo del 1968, 1969. Bastava che
andassi in un Paese, il più lontano, il più sconosciuto, perché i giornalisti venissero
a intervistare me. E le persone che io andavo a intervistare reagivano con una
deferenza che mi sorprendeva, anche con una paura che mi offendeva. Fu così che
compresi d’essere «la Fallaci». E a costo di non esser creduta, dirò che ciò non mi
fece piacere. Anzi, mi dette una specie di angoscia. Ero entrata nel regno da me
sempre avversato che ha nome celebrità.
V’è qualcosa di volgare, a mio avviso, nella celebrità e nel successo. Elizabeth
Taylor un giorno ha detto una cosa abbastanza intelligente: il successo è un
deodorante che cancella tutti i cattivi odori. Ma io non avevo cattivi odori da
cancellare. La mia vita era stata sempre irreprensibile: sia da un punto di vista
privato che professionale. Non avevo mai fatto nulla di [cui, N.d.R.] vergognarmi,
nulla che dovessi poi nascondere. Il che grazie a Dio è ancora vero. Giorni fa dissi a
un amico: «Pensa, se mi dicessero che domani devo morire, non avrei neanche un
foglio da bruciare. Perché non ho nulla da nascondere». Così anche in quel senso il
successo mi era inutile: giungeva come un dessert alla fine di un pranzo abbondante,
come un cibo di cui non avevo bisogno e che anzi mi dava l’indigestione. Quando hai
il successo, la celebrità, non appartieni più a te stesso. Tutti ti guardano in modo
diverso e si credono autorizzati a sapere tutto di te. Diventi un animale pubblico, un
animale nello zoo dove basta comprare un biglietto per avvicinarsi alla gabbia. E,
magari, nemmeno il biglietto. Sul treno ti riconoscono, nei ristoranti si girano a
guardarti. È orribile. È, come dicevo all’inizio del discorso, volgare.
Mi sono sempre difesa da quel tipo di successo, da quel tipo di celebrità.
Raramente ho concesso interviste e ho sempre vissuto seminascosta. Non vado mai
ai pranzi, ai parties, né a teatro, non frequento nessuno. Coloro che dicono «la
conosco» dicono spesso una bugia. Io non conosco nessuno, o pochissima gente.