Page 89 - Oriana Fallaci - Solo io posso scrivere la mia storia
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recitò litanie, spruzzò i suoi liquidi santi, la assolse dei peccati che non aveva mai

          commesso. Poi se ne andò e mi lasciò sola con lei che, sollevata all’idea d’esser
          stata  assolta  dei  peccati  mai  commessi,  mi  indicò  la  poltrona  accanto  al  letto.  Lì
          sedetti, col cuore che mi scoppiava, e rimasi sei giorni e sei notti dimenticando il
          fantasma  che  mi  aveva  rubato  a  lei  con  un  libro.  La  morte  della  madre  non  è
          paragonabile alla morte dell’uomo che amavi: è l’anticipo della tua morte. Perché è
          la morte della creatura che ti ha concepito, portato dentro il ventre, regalato la vita.

          E  la  tua  carne  è  la  sua  carne,  il  tuo  sangue  è  il  suo  sangue,  il  tuo  corpo  è
          un’estensione del suo corpo: nell’attimo in cui muore, muore fisicamente una parte di
          te  o  il  principio  di  te,  né  serve  che  il  cordone  ombelicale  sia  stato  tagliato  per
          separarvi. Per rinviar quella morte che era un anticipo della mia morte, dunque, mi
          tenevo  sveglia.  Per  tenermi  sveglia  la  tenevo  sveglia  e  parlavo,  parlavo.  Le
          raccontavo  ciò  che  non  le  avevo  mai  raccontato e  non  avrei  mai  raccontato  a
          nessuno,  le  mie  ferite,  i  miei  rimpianti,  i  miei  dubbi,  prezioso  fardello  tuttavia

          giacché era esso stesso vita, le dicevo che malgrado quelle ferite e quei rimpianti e
          quei dubbi mi piaceva tanto la vita, ero così contenta d’essere nata, e la ringraziavo
          in ginocchio d’avermi partorito. Perfino se non avesse fatto altre cose buone nella
          sua  bontà,  nella  sua  generosità,  l’avermi  regalato  la  vita  sarebbe  stato  per  me
          sufficiente  a  giustificar  la  sua  vita.  E  io  speravo  che  questa  mia  gratitudine  la
          ripagasse di ogni dispiacere che potevo averle dato. Per rispondermi che la rendevo

          felice, fiera del bellissimo gesto che aveva compiuto, lei mi stringeva con forza le
          dita e mi spalancava addosso gli occhi nocciola. Poi, quando veniva mio padre, me
          lo  indicava  con  l’indice  e  con  un  sorriso:  quasi  a  ricordarmi  che  il  dono  veniva
          anche da lui.
               La  settima  notte  crollai  e  di  colpo  caddi  in  un  sonno  esausto  da  cui  emersi
          scrollata dall’infermiera che strillava in preda al panico: «Si svegli, si svegli!». Mia
          madre non respirava quasi più e i suoi occhi improvvisamente celesti fissavano già

          il nulla. Se ne andò tra le mie braccia, come un uccellino intirizzito dal freddo, e per
          condurla  al  cimitero  uscii  finalmente  di  casa  notando  che  le  strade  erano  ancora
          strade, che la gente era ancora la gente. Ma la cosa non mi tentò e subito rientrai nel
          mio  tunnel  trasformando  l’esilio  in  prigione.  Scomparsa  lei  che  mi  strappava  al
          tavolino  e  mi  induceva  a  scender  le  scale,  attraversare  il  salone  con  l’orologio,

          entrare nella camera ora chiusa a chiave ed evitata da tutti, non avevo più motivo di
          lasciare  la  stanza  con  la  mezza  finestra  aperta  sul  campo  di  ulivi.  E  mentre  il
          fantasma  dimenticato  per  sei  giorni  e  sei  notti  riprendeva  possesso  della  mia
          esistenza,  mentre  il  mio  cervello  tornava  a  essere  un  muscolo,  da  usare
          esclusivamente in funzione del libro che stavo scrivendo, la stanza divenne una cella
          sopra il pero che sbocciava in una nuvola di fiori bianchi sicché doveva esser giunta
          la primavera, poi grondava di nuovo pere sicché doveva esser giunta un’altra estate,
          poi ingialliva di nuovo le foglie sicché doveva esser giunto un altro autunno, poi le

          perdeva  di  nuovo  denudandosi  in  mezzo  alla  neve  sicché  doveva  esser  giunto  un
          altro inverno, poi sbocciava una seconda volta in una nuvola di fiori bianchi sicché
          doveva  esser  giunta  un’altra  primavera  che  presto  sarebbe  scivolata  in  una  terza
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