Page 87 - Oriana Fallaci - Solo io posso scrivere la mia storia
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Tosca, l’attesa della morte














          Dopo la morte inaspettata, repentina, io ho sofferto anche la morte aspettata, la morte
          lenta.  Quella  di  mia  madre,  morta  di  cancro,  non  ancora  vecchia.  La  morte  che
          gocciola come una cannella rotta: tac… tac… tac… Gocciola e non arriva mai. Però
          sai  che  deve  arrivare  e  non  vuoi  che  arrivi,  anche  se  arrivando  porterà  la
          liberazione… vedere questa creatura che ti ama, che ami, soffrire crocifissa come un

          Cristo crocifisso…  Un tubo di ossigeno in ogni narice per respirare… e le corde
          vocali che non funzionano più mentre quegli occhi ti guardano, cercano di dire ciò
          che la bocca non dice… allora allinei le parole e chiedi: questo? Questo? Questo? E
          la  testa  si  muove,  piano,  per  dire  no,  no,  no…  E  vorresti  urlare  di  disperazione
          perché non capisci, e perché lei piange, zitta, a capire che non capisci… E una notte,
          la  fine.  Come  un  uccellino  che  muore  sulla  neve,  incapace  perfino  di  pigolare.
          Perdio!  16



          Era morto l’uomo che amavo e m’ero messa a scrivere un romanzo che desse senso
          alla tragedia. Per scriverlo m’ero esiliata in una stanza al primo piano della mia casa
          in Toscana ed era stato come infilarsi in un tunnel di cui non si intravede la fine, uno
          spiraglio di luce. La stanza era in realtà un corridoio brevissimo, arredato con alcuni

          scaffali di libri, un tavolino, una sedia, e male illuminato da una mezza finestra che
          s’apriva su un campo di ulivi. Al bordo del campo e proprio sotto la mezza finestra,
          un pero su cui mi cadeva lo sguardo quando alzavo gli occhi in cerca di sole. Non
          uscivo  di  casa  neanche  per  recarmi  in  giardino  o  alla  piscina,  non  comunicavo
          nemmeno con le persone della mia famiglia. All’alba mi alzavo, sedevo al tavolino,
          ci restavo fino a notte inoltrata ammucchiando fogli scritti che a volte approvavo e a
          volte  gettavo.  Tutt’al  più  mi  interrompevo  per  andare  giù  da  mia  madre  che  si

          estingueva  come  una  candela  in  un  letto,  divorata  da  un  invisibile  mostro  che
          chiamavano cancro. Con identici passi, identici gesti, scendevo le scale che portano
          al piano terreno, attraversavo il salone col grande orologio che ogni sessanta minuti
          suonava  col  rintocco  della  Westminster  Bell,  ed  entravo  nella  camera  dove  lei
          giaceva  con  adirata  rassegnazione:  il  bel  volto  sempre  più  smunto,  le  belle  mani
          sempre più affilate. «Come stai?» «Male.» Parlavamo poco, quasi avessimo paura di

          dirci quel che pensavamo: «Ora te ne vai anche tu», «Ora me ne vado anch’io». Le
          pause  che  trascorrevo  con  lei  erano  un  susseguirsi  di  movimenti  che  rubavo
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