Page 64 - Oriana Fallaci - Solo io posso scrivere la mia storia
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Vietnam e così sia














          C’era  la  guerra  in  Vietnam  e  se  uno  faceva  il  giornalista  finiva  prima  o  poi  per
          andarci. Perché ce lo mandavano, o perché lo chiedeva. Io l’avevo chiesto. Per dare
          a me stessa la risposta che non sapevo dare a Elisabetta [la sorella minore, N.d.R.],
          la vita cos’è, per ricercare i giorni in cui avevo troppo presto imparato che i morti
          non rinascono mai a primavera. Ed ora mi trovavo a Saigon e i miei occhi vagavan

          sorpresi senza vedere la guerra: dov’era la guerra? Nell’aeroporto di Than Son Nhut
          i caccia a reazione, gli elicotteri con le mitraglie pesanti, i rimorchi con le bombe al
          napalm si allineavano insieme ai soldati dall’aria triste. Ma questa non era ancora la
          guerra.  Lungo  la  strada  che  porta  in  città  si  ammucchiavano  sbarramenti  di  filo
          spinato, fortificazioni coi sacchi di sabbia, torrette da cui i soldati puntavan fucili.
          Ma  questa  non  era  ancora  la  guerra.  In  città  passavano  jeep  coi  militari  armati,
          camion coi cannoncini spianati, convogli con le cassette di munizioni. Ma questa non

          era  ancora  la  guerra.  Cosa  c’entra  la  guerra  coi  risciò  che  si  tuffan  leggeri,  a
          pedalate, nel traffico, le venditrici di acqua che corrono a piccoli passi bilanciando
          la merce sui piatti a stadera sospesi a una canna di bambù, le minuscole donne dai
          lunghi vestiti  e  i  capelli  sciolti  che  dondolan  dietro  le  spalle  come  veli  neri,  le
          biciclette, le motociclette, i bambini con le scatole di cera e le spazzole per pulirti le
          scarpe, i taxi luridi e svelti. C’era un caos quasi allegro a Saigon nel novembre del

          1967,  ricordi?  Tu  giungevi  a  Saigon,  nel  novembre  del  1967,  ricordi,  e  non  ti
          accorgevi  molto  della  guerra.  Essa  sembrava  semmai  un  dopoguerra:  coi  negozi
          pieni  di  cibo,  le  gioiellerie  piene  d’oro,  i  ristoranti  aperti,  ed  il  sole.  Entravi  in
          albergo  e  funzionava  perfin  l’ascensore,  il  telefono,  il  ventilatore  al  soffitto,  e  il
          cameriere vietnamita era sempre pronto a un tuo cenno e sul tavolo c’era sempre un
          vassoio di ananas freschi e di mango, e non pensavi a morire.
               Poi, all’improvviso, era notte, la guerra mi lacerò gli orecchi. Con un colpo di

          cannone.  E  poi  un  altro,  ed  un  altro.  Le  mura  tremarono  sotto  le  scosse,  i  vetri
          tintinnarono  fin  quasi  a  spaccarsi,  la  lampada  in  mezzo  alla  stanza  paurosamente
          oscillò. Corsi alla finestra, il cielo all’orizzonte era rosso, e riconobbi la guerra in
          cui avevo troppo presto imparato che non si rinasce più a primavera. E pensai che in
          quel momento, nel resto del mondo, la polemica infuriava sui trapianti del cuore: la
          gente, nel resto del mondo, si chiedeva se fosse lecito togliere il cuore a un malato

          cui restano dieci minuti di respiro per darlo a un altro malato cui restano dieci mesi
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