Page 69 - Oriana Fallaci - Solo io posso scrivere la mia storia
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lo  sterco  e  il  fetido  liquido  d’una  stanza  da  bagno  sventrata,  suppongo,  da  una

          cannonata. […]
               Credendomi morta, invece di lasciarmi al Pronto Soccorso mi scaraventarono in
          uno stanzone pieno di cadaveri ammucchiati. Infatti è qui che riaprii gli occhi: tra i
          cadaveri ammucchiati. […] Per la rabbia ritrovai tutte le mie forze e in italiano mi
          misi a urlare parolacce. Insulti che sia pure con imbarazzo elenco: «Figli di puttana,
          assassini, fascisti di merda, toglietemi di qui!». Mi udirono, graziaddio, e arrivò un

          prete con la stola viola dei sacerdoti che amministrano l’estrema unzione. «Es viva!»
          esclamò incredulo e felice. Poi si chinò su di me e chiese: «Usted es cattolica?». La
          domanda mi parve così inopportuna che gli risposi con una frase che ora non oso
          riferire.  E  la  cosa  mi  salvò.  Convinto  che  solo  una  persona  viva  potesse
          abbandonarsi a un simile turpiloquio, il poveretto mi fece subito condurre al Pronto
          Soccorso dove l’ambasciatore Guastone Belcredi mi cercava affannosamente da ore.
          Su un’automobile dell’ambasciata italiana fui trasferita in un altro ospedale dove con

          il lungo e duplice intervento il professor Vassalli mi tolse le pallottole e dove per
          giorni rimasi in stato d’arresto.


          Nella  mia  vita  ho  visto  molte  brutte  cose.  Molte.  Sono  nata  in  una  tirannia,  sono
          cresciuta in una guerra, e per gran parte della mia esistenza ho fatto il corrispondente

          di guerra. Per anni (in Vietnam, otto) ho vissuto al fronte. Ho seguito battaglie, ho
          subìto  sparatorie  e  cannoneggiamenti  e  bombardamenti,  ho  testimoniato  l’umana
          crudeltà e imbecillità. Di carneficine, di eccidi, me ne intendo. Purtroppo. Però in
          tempo di pace mai ho visto un eccidio così infame, così cinico, così ben organizzato,
          come l’eccidio di Plaza Tlatelolco. Mai.        47


          Se  io  non  ce  le  avessi,  queste  tre  cicatrici,  mi  sentirei  infinitamente  più  povera.

          Perché mi domanderei ancora a cosa serve nascere a cosa serve morire, e la morte di
          tutti gli uomini che ho visto morire per mano degli uomini mi sembrerebbe inutile, e
          me  ne  starei  come  una  lucertola  al  sole,  indifferente  immobile  intenta  solo  a
          sbadigliare sulla mia letargia.    48



                                                           ***


          Nell’estate del 1978 il direttore della casa editrice Rizzoli of New York pensò di

          fare una pubblicazione illustrata sul Messico, e mi propose d’esserne l’editor  and
          supervisor. Dapprima ne risi. Poi ci ripensai. Il mondo cambia, mi dissi, la gente
          cambia. Forse è il caso d’accettare.
               Da  New York, dove abitualmente abito, chiamai dunque l’allora ambasciatore
          d’Italia Raffaele Marras. Gli chiesi consiglio. Marras rispose che si trattava d’una

          buona  idea,  che  mi  recassi  subito  a  Mexico  City,  e  sia  pure  con  un  residuo di
          perplessità mi misi in viaggio. Ma scesa dall’aereo trovai che mi aspettava presso il
          recinto della polizia con altri membri dell’ambasciata. Stupita domandai perché, e la
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