Page 74 - Oriana Fallaci - Solo io posso scrivere la mia storia
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Il mio editore














          Strana  faccenda  quella  che  m’è  capitata  quando  ho  saputo  che  [Angelo  Rizzoli,
          N.d.R.] stava morendo. Ero in Sud America, a contatto della morte ingiusta, la morte
          che arriva a uno studente di diciott’anni con una pallottola della polizia, la morte che
          arriva a un prete ribelle con la tortura degli choc elettrici. Venivo dalla Bolivia dove
          Che Guevara fu ammazzato e mutilato e gettato al vento all’età di trentanove anni. A

          rigore di logica, perlomeno della mia logica, non avrei dovuto restare scossa dalla
          morte  serena  di  un  vegliardo  che  finisce  a  ottantun  anni  in  un  letto,  ignorando  il
          dolore, dopo una vita che è stata generosa con lui. Eppure sono corsa a prendere il
          primo aereo diretto in Europa. Perché? Sull’aereo mi son chiesta perché. Non è un
          mio parente, mi son detta, non è nemmeno un mio amico, è solo un mio editor per cui
          scrivo articoli e libri. Gli sono legata, va bene, ma nessuno mi ingiunge di andare e
          di  piangerlo.  Neanche  la  convenienza,  neanche  la  coscienza,  neanche  la  tenerezza

          provata per lui. Allora perché?


          Ora che è morto dicono tutti che era un grand’uomo. E la sua leggenda si allarga, si
          gonfia,  nutrita  dai  facili  aneddoti, dai  luoghi  comuni,  dalla  stessa  paura  che  egli
          incuteva da vivo con la sua ricchezza, la sua potenza, la sua autorità. Quanti avevano

          paura di lui. In tale paura lo circondavano come cortigiani al soldo di un imperatore,
          sempre pronti a dargli ragione, a leccargli i piedi, a spillargli soldi: in una sagra di
          servilismo che egli fissava con occhietti duri, pungenti, due spilli di ghiaccio. «Sì,
          commenda. Certo, commenda. Subito, commenda.» E mai nessuno che gli facesse un
          regalo, un po’ d’affetto disinteressato. Il giorno in cui gli portai un’anforina di scavo
          e  ci  misi  dentro  due  nontiscordardimé,  quasi  pianse  per  la  sorpresa,  per
          l’incredulità.  Se  ne  andò  via  reggendola  tra  il  pollice  e  l’indice,  neanche  fosse

          l’ostia consacrata.
               Bè, io non avevo paura di lui. Al contrario, e può sembrare un paradosso, per lui
          sentivo una specie di tenerezza. Perché mi sembrava così solo, ecco, così fragile,
          così  indifeso:  a  cominciare  dai  piedi  che  aveva  minuscoli,  simili  ai  piedi  delle
          donne  cinesi  quando  glieli  fasciavano  appena  nate,  e  se  gli  guardavo  i  piedi  mi
          chiedevo  sempre  come  facessero  a  sostenere  quel  corpo,  quella  responsabilità.

          Aveva piccole anche le mani che sui bambini e sui soldi diventavano dolci, piume
          per accarezzare. Era piccolo tutto, fino alla testa bianca e al viso rotondo, asiatico,
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