Page 55 - Oriana Fallaci - Solo io posso scrivere la mia storia
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impressione che questo tecnico, questo atleta, questo astronauta, conoscesse tanto
bene Shakespeare. In seguito non ne fui più sorpresa perché ebbi occasione di
conoscerlo meglio. È un uomo che ha la casa letteralmente tappezzata di libri, che
legge moltissimo, non esce mai. È un uomo anche col quale è impossibile fare ciò
che gli americani chiamano small talk, una conversazione di poco conto. Insomma, si
comincia a parlare con lui del tempo e si finisce per lo meno a parlare di Dio.
Jim Lovell è completamente diverso. È curioso come la NASA cerchi sempre in
questi voli di abbinare due personalità totalmente diverse. È molto più semplice, più
gioviale in un certo senso, più facile a farci amicizia, molto meno intellettuale, ama
scherzare. Anche lui lo conobbi due anni fa a Las Cruces, nel Nuovo Messico,
durante un altro lancio, mentre raccoglievo materiale per questo mio libro. L’ultima
volta che l’ho visto, escluso pochi giorni fa, con una certa tranquillità, è stato a
Houston quest’estate, luglio, agosto, non mi ricordo esattamente. Mi invitò a cena a
casa sua, insieme ad altri amici, ad altri astronauti. Marilyn, sua moglie, era già
incinta, anche ora aspetta un figlio, il quarto, che dovrebbe nascere proprio mentre
lui è in volo per tornare sulla Terra. Marilyn non stava bene quel giorno. La
trovammo distesa su questo divano e un po’ preoccupati le chiedemmo chi avrebbe
fatto da mangiare. Eravamo molto affamati, ricordo. E lei diceva: «La cuoca è là».
La cuoca era Jim, con un bel grembiulone con dei paperini e dei fiorellini davanti,
che stava cucinando questi due polli e stava riscaldando dei piselli e la verdura. Jim
fece la cena e poi ce la servì, come un bravo, obbediente, marito americano. 28
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Alla Medical School di San Antonio in Texas, dove ero andata a raccogliere
materiale per il mio libro Se il Sole muore, chiesi d’esser sottoposta all’esame di
intelligenza che facevano agli astronauti. Non un esame basato su un’erudizione
scientifica o un’informazione tecnica, badate bene: un esame basato su cognizioni
generali e su ragionamenti elementari. Sapete che cosa ne risultò? Che io avevo il
cervello di una scimmia appena nata… I voti andavano da zero a 250, ricordo. Ebbi
35 dove il più mediocre degli astronauti otteneva 150, 180, 200. E sapete che cosa
precipitò la situazione? La risposta che detti quando mi mostrarono un foglio bianco
di carta e mi posero la domanda: «Questo cos’è?».
Risposi che era un campo coperto di neve, probabilmente un campo di grano
nell’Ohio o in Lombardia o in Ucraina, poi descrissi con passione le radici del grano
che lottavano per spingere i primi germogli oltre la cappa di neve mentre il
contadino aspettava impaziente, malediceva l’inverno cattivo che gli avrebbe
rovinato il raccolto, eccetera eccetera. Ero arrivata al punto in cui il contadino
maledice l’inverno cattivo quando la voce dell’esaminatore mi interruppe inorridita:
«What in the hell are you saying? This is a sheet of paper!» (Che diavolo dice?
Questo è un pezzo di carta!).
Lo sapevo anch’io che era un pezzo di carta: non sono mica cieca. Ma il mio tipo
di intelligenza non vedeva quel pezzo di carta come un pezzo di carta: lo vedeva