Page 54 - Oriana Fallaci - Solo io posso scrivere la mia storia
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In particolare Edward White. White. L’angelo. Nel mio libro io lo chiamo
l’angelo. Anche fisicamente somiglia a un angelo, con questo volto lungo, nobile,
patito, un po’ triste. Con questi occhi miti azzurri, le ciglia bionde. Un sorriso
costante sulle labbra, sempre molto dolce, e questa timidezza, molto strana in un
uomo che è militare, capitano dell’Air Force, che ha studiato a West Point, che ha
avuto una vita abbastanza dura e tutt’altro che facile.
La cosa che colpisce di più quando si conoscono questi uomini la cui età oscilla
tra i 29-39 anni è questo senso di vecchiaia che sprigiona dalle loro anime. Tanto
per cominciare sono tutti calvi, o mezzi calvi, e coi capelli grigi. E quando non sono
calvi o coi capelli grigi hanno sempre questo volto solcato dalle rughe, dalle
preoccupazioni, dalle angosce, dalle responsabilità pesanti e da questa vita
durissima che fanno. Io credo che la gente non si renda conto della vita durissima che
fanno.
Una domanda che ho rivolto a tutti gli astronauti. Ma tu hai paura? Lei ha paura?
E tutti mi hanno dato una risposta che è una delle ragioni per cui li stimo molto e gli
sono tanto affezionata. Tutti hanno risposto sì, a eccezione di Shepard e di un altro.
Le posso dare la risposta esatta che mi ha dato White. Questo è il taccuino con gli
appunti della nostra intervista. Ecco qua. «Lei pensa che avrà paura la prima volta
che andrà su?» «Chiunque le dica che non ha paura mente.» 27
Frank Borman io lo definirei uno strano tipo di intellettuale. È curioso come anche
negli ambienti spaziali possano esistere questi intellettuali nel senso che noi diamo
alla parola. Frank l’ho conosciuto due anni fa proprio qui a Cape Kennedy. La prima
volta che l’ho incontrato sulla piscina dell’Holiday Inn, un motel qui vicino, la prima
impressione che ebbi di quest’uomo… Di solito la prima impressione risulta più o
meno essere la più esatta. Stavano tutti lì questi astronauti, erano un gruppo di sette,
otto, un lancio del Saturno era stato rinviato, e parlavano tra di loro, scherzavano.
Lui se ne stava in disparte, pensieroso, assorto. E mi colpì per due cose: anzitutto
per questa espressione particolarmente severa e poi per una strana cicatrice – l’ho
raccontato nel libro questo episodio – che aveva sul torace. Eravamo tutti in costume
da bagno. Quindi si vedeva questa cicatrice sul torace, rettangolare, come una toppa
di carne messa qua. Io lo guardavo un po’ inorridita, un po’ incuriosita. Sicura che
lui non si accorgesse che lo stavo guardando. E d’un tratto alzò la testa e mi disse:
«Me la sono fatta in Corea. Lo zaino era pesante, le cinghie facevano attrito e non
sono più guarito. Brutta, eh? Il mio nome è Frank Borman». E diventammo amici.
C’era quel giorno, intorno alla piscina, tra gli altri, Pete Conrad, l’astronauta che è
andato su nell’ultimo volo insieme a Gordon Cooper, che è un tipo divertente, un po’
fanciullesco. Pete doveva tenere una conferenza a Philadelphia e andava in giro
strillando: «Chi mi dà l’inizio per la mia conferenza? Chi mi aiuta?». Tutti ridevamo
di lui.
Frank Borman si alzò e drappeggiando una toga immaginaria intorno a questo
corpo seminudo, a questa cicatrice rossa, rettangolare, incominciò a declamare
l’orazione di Marcantonio dal Giulio Cesare di Shakespeare. Mi fece tanta