Page 48 - Oriana Fallaci - Solo io posso scrivere la mia storia
P. 48

al  Pakistan,  poi  all’India,  poi  all’Indonesia,  poi  alla  Cina  se  mi  avessero  dato  il

          visto (ma non me lo dettero e dovemmo contentarci di Hong Kong), poi al Giappone,
          alle Hawaii, agli Stati Uniti d’America e di nuovo l’Italia. Come Phileas Fogg avrei
          anche avuto un compagno di viaggio, e con questo non voglio dire che si trattasse di
          un  Passepartout: il mio compagno di viaggio era  Duilio  Pallottelli, fotografo, e in
          virtù  dell’uguaglianza  dei  sessi  non  mi  avrebbe  portato  le  valige  come  un
          Passepartout. Quindi andammo all’Ufficio d’Igiene dove ci bucarono da tutte le parti

          perché  non  prendessimo  il  tifo,  la  febbre  gialla,  il  vaiolo,  il  colera.  Chiedemmo
          quegli  stupidi  timbri  che  si  chiamano  visti  e  che  i  sacerdoti  delle  carte  da  bollo
          ritengono indispensabili per varcare i confini. Ascoltammo con falsa compunzione il
          direttore  che  raccomandava  di  non  perdersi  dietro  il  folclore  e  scrivere  cronache
          secche. E partimmo.
               Portavamo  con  noi  una  decina  di  macchine  fotografiche,  una  macchina  da
          scrivere, un biglietto di aereo che sembrava una fisarmonica tanto era lungo, infine

          una  immensa  sincera  curiosità.  Eh,  lo  so  bene  che  oggigiorno  gli  impiegati  della
          Rinascente vanno a Bombay con la medesima facilità con cui i nostri nonni andavano
          a Vienna e a Parigi; io stessa vado e torno nel giro di una settimana a Teheran o a
          New York per fare un articolo che il giorno dopo sarà già vecchio. Ma non ci si
          libera facilmente dalla suggestione che accompagna un viaggio del genere e perfino
          gente avvezza all’indifferenza della vita moderna mi guardava con un poco d’invidia

          e mi dava consigli: «Attenta a non spingerti troppo nei quartieri proibiti». «Ricordati
          che  all’equatore  ci  sono  i  serpenti.»  «Beata  te  che  vai  al  caldo.»  Duilio,  che  da
          autentico romano non si scompone per niente e se incontrasse un abitante di Marte lo
          guarderebbe con uno sbadiglio, era tutto agitato. Mi tormentava col problema delle
          borse  refrigeranti  dove  avrebbe  custodito  le  pellicole  per  proteggerle  dal  grande
          calore. Mi chiedeva quante giacche di lana avrebbe dovuto sostituire con giacche di
          lino.  E:  «Dimmi:  è  vero  che  le  giapponesi  ci  lavano  entrando  nude  con  noi  nella

          vasca?  È  vero  che  a  Hong  Kong  è  così  facile  portarsele  a  letto?  È  vero  che  le
          indiane  conoscono  centoquarantasei  modi  per  fare  l’amore?».  Il  suo  interesse,
          ammettiamolo,  non  era  rigorosamente  giornalistico:  partendo  da  Ciampino  già
          pregustava il momento in cui sarebbe tornato per raccontare agli amici l’avventura
          con una certa cinese, una certa giapponese, una certa indiana, e il suo volto giovane

          sorrideva beato all’attesa. Ma allo stesso modo in cui egli commetteva quel banale
          peccato, io ne commettevo un altro non meno banale (malgrado esulasse dall’attesa
          di un certo cinese, di un certo indiano, di un certo giapponese, avventure che avrei
          evitato senza rimpianto). Nuotavo, ecco, in una fantasia di Grandi Piogge e statue di
          Buddha e templi di Shiva e canoe polinesiane. Quando l’aereo si alzò, pensai con
          gratitudine alle lacrime dell’amica infelice. E solo allora mi tornò alla mente che non
          ero un Phileas Fogg impegnato in una amena scommessa: bensì una donna impegnata
          in un lavoro difficile.  14



          La  prima  impressione  che  una  donna  occidentale  riceve  giungendo  in  Paesi
          rigorosamente  mussulmani  è,  come  in  Pakistan,  quella  d’essere  l’unica  donna
   43   44   45   46   47   48   49   50   51   52   53