Page 22 - Oriana Fallaci - Solo io posso scrivere la mia storia
P. 22

vederlo.

               Andammo  con  una  borsa  piena  di  cibo,  ricordo,  che  ci  fu  subito  rubato  dalle
          guardie, fummo spinte insieme ad altri parenti di carcerati in una stanzaccia chiamata
          parlatorio, e in questa stanzaccia c’era una lunga panca, poi un lungo tavolo, dietro il
          tavolo  una  dozzina  di  uomini  malvestiti.  Tra  di  loro  un  uomo  con  la  faccia
          terribilmente gonfia e piena di lividi neri, immense labbra violette, un occhio quasi
          chiuso,  dinanzi  al  quale  nessuno  andava  a  sedersi.  Così  ci  sedemmo  noi  tre,

          silenziosamente aspettando che mio padre arrivasse. Aspettavamo da circa un minuto
          quando una voce sussurrò: «Non mi salutate nemmeno?». Era la voce di mio padre e
          veniva da quell’uomo sfigurato che non avevamo riconosciuto: tanto era sfigurato.
          Poi le enormi labbra violette sorrisero e mio padre disse non preoccupatevi, va tutto
          bene, andrà tutto bene, non ho parlato, non sanno nulla, quasi nulla, vedrete che non
          mi  fucileranno:  al  massimo  mi  manderanno  in  Germania in  un  campo  di  lavoro.
          Quando uscimmo, io chiesi a mia madre: «Perché, mamma, perché lo hanno picchiato

          a quel modo?». E mia madre rispose: «Perché tuo padre fa politica. Perché cerca di
          rendere  questo  mondo  un  po’  più  decente,  un  po’  più  dignitoso,  un  po’  più
          sopportabile».   18


          Se la cavò per miracolo. Io tuttavia continuai a rendere piccoli servizi col gruppo di

          Giustizia e Libertà. Avevo tutti gli indirizzi e gli pseudonimi, nonché i nomi veri, dei
          compagni  appartenenti  alle  cellule  di  città.  Li  tenevo  dentro  una  zucca  vuota
          (dall’apparenza  fresca)  ciondoloni  a  una  pianta  nell’orto  di  un  convento  dove
          eravamo nascoste: io, mia madre, le mie sorelline  Neera e  Paola.  Sotto la paglia
          tenevo  la  stampa  clandestina.  Il  giorno  della  strage  di  piazza  Torquato  Tasso  (il
          convento  era  vicinissimo)  fummo  circondati.  Riuscii,  sotto  gli  occhi  dei  militi
          fascisti e tedeschi, a portare in casa il materiale propagandistico e bruciarlo nella

          stufa. Poi mi mangiai tutti i foglietti della zucca. Non c’era altro da fare ma in seguito
          a ciò venni aspramente rimproverata: quando giunse la vigilia della Liberazione di
          Firenze,  per  colpa  mia  mancavano  tutti  gli  indirizzi  necessari  a  mettere  insieme  i
          gruppi partigiani. Furono messi insieme, alla fine, con difficoltà.
               La guerra insomma la vissi e la soffrii in pieno, malgrado la mia giovane età.
          Proprio nel periodo in cui mio padre era in carcere, la mia casa venne più volte

          bombardata. Tra i ricordi più cupi della mia infanzia e della adolescenza v’è quello
          delle  bombe  che  cadono,  delle  corse  folli  sotto  le  bombe.  Non  mi  persi  un
          bombardamento: uno scherzo del destino mi faceva trovare sempre, per l’appunto,
          nel  luogo  colpito.  Non  mi  successe  mai  nulla.  Nel  pericolo  ho  sempre  avuto  una
          strana  anzi  straordinaria  fortuna.  Ma  in  quegli  anni  imparai  a  odiare  la  guerra,  le
          bombe,  i  fucili, tutto  ciò  che  spara.  Imparai  a  comprenderne  la  illogicità,  la
          imbecillità,  la  follia.  Anch’io,  a  mio  modo,  sì,  facevo  la  guerra:  ma  non  per

          attaccare. Per difendermi. Devo aggiungere infatti che ero, malgrado le mie treccine,
          totalmente  consapevole  di  ciò  che  facevo:  proprio  come  lo  sarebbe,  oggi,  un
          bambino vietcong. Ma non ho mai sparato. Non ho mai ammazzato nessuno. Non ho
          mai partecipato a una azione che provocasse sangue. E oggi, a maggior ragione, farei
   17   18   19   20   21   22   23   24   25   26   27