Page 18 - Oriana Fallaci - Solo io posso scrivere la mia storia
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cancro? In nome di tale indulgenza capitava perfino che mia madre mi prestasse a lei
          per alleviare la sua solitudine dovuta alla mancanza di figli, sicché spesso mi veniva
          a prendere e mi portava in luoghi tanto insopportabili quanto inadatti all’infanzia.
          «Dove  andiamo,  zia?»  «A  sentire  un  concerto  di  musica  da  camera.»  «Dove
          andiamo,  zia?»  «A  portare  i  crisantemi  sulla  tomba  di  mio  suocero.»  Mai  che
          andassimo a mangiare la panna o a fare un giro in giostra, e mai che qualcuno glielo

          facesse osservare. L’importante era che non mi parlasse di Hitler e di Mussolini. In
          casa  i  nomi  dei  due  dittatori  venivano  pronunciati  insieme a  insulti  terribili,
          maledizioni da accapponare la pelle, e quell’estate ero stata biasimata aspramente
          perché avevo detto duce. «Duce di chi, di che? Chi ti ha insegnato questa parola?»
          «La  maestra.»  «La  tua  maestra  è  una  fascista  e  questa  parola  è  una  parolaccia,
          capito?  Guai  a  te  se  la  ripeti.»  Comunque  quel  pomeriggio  la  zia  non  m’aveva
          condotto né al concerto né al cimitero, bensì in una piazza con tribune alle quali si

          accedeva con un biglietto. E la novità m’aveva incantato. «Zia, perché siamo qui?»
          «Per vedere una cosa.» «Che cosa?» «Una cosa.»
               Non  ricordo  molto  dell’antefatto  fuorché  un  gran  sole  bollente,  il  rumoreggiar
          della folla eccitata, i piccioni che svolazzavano tra le bandiere, e il fiocco nero che
          la zia aveva tolto dalla borsa per annodarmelo in testa. «Perché nero, zia?» «Perché
          lo zio ha detto nero per rispetto al  Führer e al  Duce!»  Ma ricordo bene la paura

          atroce che m’aveva intirizzito a udir quella frase, capire che la «cosa» erano Hitler e
          Mussolini.  Che  cosa  sarebbe  successo  se  i  miei  genitori  avessero  scoperto  che
          avevo  commesso  il  peccato  di  venire  a  guardarli?  E  anche  se  non  lo  avessero
          scoperto, quale malattia mi sarei presa a guardarli? Una malattia agli occhi, certo, e
          alla paura s’era presto aggiunta una gran voglia di piangere per gli abusi che stavo
          subendo:  il  fiocco  nero,  il  peccato  cui  ero  costretta,  la  cecità  che  m’avrebbe
          mutilato. Con quella voglia di piangere m’ero messa a cercare una via di salvezza e

          l’avevo trovata nell’unica soluzione possibile: al passaggio dei due avrei chiuso gli
          occhi. Ciò m’avrebbe impedito di diventar cieca e di non mentire se avessi dovuto
          giurare:  «Io  non  li  ho  guardati».  Che  bisogno  ne  avevo,  del  resto?  I  loro  volti  li
          conoscevo. Mussolini lo vedevo sempre a scuola dove stava sotto il crocifisso, nella
          fotografia  accanto  a  quella  del  re.  Era  un  tipo  gonfio,  antipatico,  con  la  bocca
          arrabbiata e l’elmetto in testa. Hitler lo vedevo sul giornale o al cinematografo. Era

          un tipo altezzoso, con due baffetti a spazzolino da denti, e portava un ciuffo a coda di
          lucertola  sulla  tempia  sinistra.  Entrambi  mi  incutevano  un  grande  disagio  e,  se
          pensavo alla loro importanza, anche il dubbio che i miei genitori sbagliassero: che
          cioè si trattasse di due persone eccezionali, straordinarie, uniche al mondo. Il ritratto
          che la mia maestra ne dava.
               Però  quando  la  folla  esplose  in  un  urlo  estasiato  e  la  zia  strillò  arrivano,
          arrivano,  i  miei  buoni  propositi  si  dissolsero  nella  tentazione,  e  la  curiosità  di

          guardarli  divenne  talmente  acuta,  irresistibile,  che  anziché  chiudere  gli  occhi  li
          spalancai.  E  vidi,  senza  diventar  cieca.  Perché  non  vidi  ciò  che  i  miei  genitori
          dicevano o ciò che la mia maestra affermava.  Vidi due uomini uguali a tanti, uno
          grasso e uno magro, che non assomigliavan per niente alla loro fotografia. Il grasso
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