Page 13 - Oriana Fallaci - Solo io posso scrivere la mia storia
P. 13

che guarda sulla Loggia del Vasari, e fuma la sigaretta con un bocchino molto lungo.

          Ha vestaglie lunghe fino ai piedi, rosa e celesti, e mangia gianduiotti che a me non dà
          mai. («Guai se li chiedi!» minaccia la mamma.) Quando non mangia gianduiotti e non
          fuma,  fa  le  carezze  a  un  gatto  soriano  e  legge  il  giornale.  E  in  due  occasioni  la
          ricordo con me: in un bar, seduta accanto a un signore che non so chi sia. Il bar, l’ho
          riconosciuto da adolescente, è Doney di via Tornabuoni. Il tavolino è accanto alla
          parete  che  guarda  sul  marciapiede  di  via  Tornabuoni.  E  il  signore  accarezza

          lentamente  una  mano  della  zia  Gianna.  Sul  tavolo,  dinanzi  a  loro,  vi  sono  due
          bicchieri a calice, e dentro i due bicchieri c’è un liquido rosso: pastoso. Arriva un
          cameriere con una strana bottiglia, preme una levetta della bottiglia, e schizza dentro
          il bicchiere uno spruzzo di bollicine che mi affascinano. «Mangia il tuo gelato» dice
          la zia Gianna con una voce bassa, diversa dalla voce di tutte le donne che ascolto.
          (La voce della mamma è fresca, sonora. E così quella della zia Piera. La voce della
          zia Bianca è un po’ cavernosa. E quella della nonna è piuttosto un borbottio. Quella

          della zia Gianna invece sembra una musica. Studiata, artefatta, diversa.) Ma invece
          di mangiare il gelato io guardo le bollicine. Capirò un giorno che si trattava di un
          Campari al selz. Perché sono lì con lei, nel bar, non lo so. Infatti non mi parla e non
          si cura affatto di me se non per dire mangia-il-gelato.  Ma credo che mi usi come
          alibi  per  vedere  il  signore  col  quale  beve  il  liquido  rosso  e  che  le  accarezza  la
          mano. Un suo amante?

               Si fa un gran parlare, in casa, della zia Gianna. È l’argomento di conversazione
          preferito dalle zie Bianca e Piera, che la detestano. Dicono che fa le corna a Bruno,
          che Bruno se n’è accorto e che lei ha tentato di avvelenarsi. Dicono che quando le
          cose volgono al peggio lei finge di ammalarsi e si mette a letto con la febbre alta. Ma
          la febbre non c’è. E lei, per farla salire, sfrega il termometro contro il lenzuolo.
               L’ultimo ricordo della zia Gianna è quello sul Ponte Vecchio. La zia Gianna sta a
          cavalcioni  del  parapetto,  nel  punto  in  cui  c’è  la  statua  di  Benvenuto  Cellini.  Sta

          proprio come se fosse a cavallo, e dice al nonno: «Guardi, papà, ché mi butto! Mi
          butto, mi butto!». Il nonno mi tiene con la mano sinistra. Nella destra ha il bastone.
          Batte il bastone sulle pietre, impaziente, e risponde: «Buttati, buttati. Ma fa’ presto
          ché devo riportare la bambina a casa».  Un giorno la zia  Gianna non si vede più.
          Dicono che è scappata con un tenente a Venezia. «Poco perbene, poco perbene! Lo

          avevo detto io che gli faceva le corna!» Dai quaderni dello zio Bruno risulta che il
          fattaccio è avvenuto nel 1933. Quindi io ho quattro anni. La rivedrò per un istante
          diciotto anni dopo: al teatro La Pergola di Firenze. Non mi sembrerà più molto bella
          ma  continuerà  ad  essere  molto  elegante.  In  testa  ha  un  minuscolo  casco  di  penne
          verde-argento. Addosso, un mantello col collo di volpe. Ai lati, due signori che la
          sorreggono. Lei cammina a fatica. Forse è malata, forse ha una gamba rotta. Per un
          istante i suoi grandi occhi gelidi incontrano i miei, forse mi riconosce, ed ha una
          specie di brivido. Ma ormai io so che ha fatto soffrire tanto lo zio Bruno e tiro di

          lungo, fingendo di non averla riconosciuta. Cinque anni dopo, a Milano, mi giungerà
          una  lettera  con  la  quale  chiede  «alla  sua  nipotina»  i  soldi  «per  comprarsi  il
          carbone».  È  una  lettera  scritta  a  mano,  e  la  sua  calligrafia  è  riconoscibilissima.
   8   9   10   11   12   13   14   15   16   17   18