Page 10 - Oriana Fallaci - Solo io posso scrivere la mia storia
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il letto dove dormo quando sono a Firenze. Da queste due camere parte un corridoio

          sul quale s’apre quasi subito la porta del «salotto buono». Nel salotto c’è il tavolo
          che ora tengo a Casole, e la libreria a vetri che ora tengo a Firenze. Ci sono anche
          due disegni del babbo: il Mio Mao che ora è nella camera di Firenze, sornione come
          il  nonno  e  ritratto  nell’atto  di  portarsi  una  zampa  alla  bocca  per  nascondere  un
          sorriso  beffardo,  e  un  uccello  trampoliere  con  una  zampa  alzata.  Quello  che  ora
          tengo nel salone di Casole. Il salotto è buio, la finestra dà su un piccolo cortile. Il

          corridoio  corre  lungo di  esso  e  a  un  certo  punto  si  allarga  formando  una  stanza
          quadrata  con  una  parete  affrescata  e  un  divanetto.  Lo  chiamano  il  divano  degli
          innamorati perché la zia  Piera vi si siede con il fidanzato  Mario ad amoreggiare.
          Parlano  a  bassa  voce,  si  sbaciucchiano,  e  ogni  tanto  vengono  raggiunti  da  una
          protesta: «Non vedete che la bambina vi guarda?!?». La stanzetta col divano degli
          innamorati si apre sulla sala da pranzo: che a me sembra immensa. In mezzo alla sala
          da pranzo c’è un gran tavolone e, a destra, ci sono due stanze. Una, quasi vuota, che

          contiene un deschetto dove il nonno aggiusta le scarpe della famiglia. Un’altra che è
          la camera della zia Bianca e della zia Piera. Un giorno io mi rifugio sotto le gonne
          della Piera e vedo due gambe bruttissime: corte e grasse e bianche. Sento anche un
          odore acutissimo, un odore che non ho mai sentito addosso alla mamma, e poi uno
          schiaffo  che  mi  colpisce  sulla  guancia  sinistra. Allora  interviene  il  nonno  che  mi
          salva dalle ire della mamma e mi porta al deschetto. Mi regala le bullette che usa per

          le  suole.  Ero  molto  affascinata  dal  nonno  che  accomodava  le  scarpe.  Per  questo
          durante l’adolescenza, cioè subito dopo la guerra, imparai a farmi le scarpe. (Me le
          facevo con le suole di gomma. La gomma nera dei copertoni delle automobili.) E non
          capivo perché la mamma dicesse: «Non sa mica risuolare. Si vede che non è il suo
          mestiere. Dovrebbe far rifare i tacchi da un calzolaio vero!».
               Il nonno era molto affettuoso. Mi proteggeva sempre e, in una famiglia dove non
          si sorrideva mai, sorrideva sempre. Nella stanza col deschetto teneva un prosciutto.

          Lo teneva penzoloni  a  una  corda  attaccata  a  un  gran  chiodo  della  parete  dietro  il
          deschetto  e  accanto  al  prosciutto  ci  teneva  un  coltello.  Gli  altri  entravano  e  si
          tagliavano una fetta. Mi sono sempre chiesta che sapore avesse quel prosciutto. A me
          non  lo  facevano  mangiare  mai.  «Alla  bambina fa male, fa male!»  Ma un giorno il
          nonno mi portò alle cascine e in tasca, ben rinvoltata dentro un pezzo di carta gialla,

          aveva  una  fetta  di  prosciutto.  «Tieni»  mi  disse.  «L’ho  tagliata  mentre  loro  non
          guardavano.» Io l’addentai e mi parve la cosa più salata che avessi mai messo in
          bocca.
               Il nonno aveva i capelli bianchi, leggeri, radi, e gli occhi più azzurri che abbia
          mai visto. La sua faccia era tonda, rosea, il suo corpo era svelto, e camminava col
          bastone. Un bastone col manico curvo. Con quel bastone mi portava alle cascine per
          vedere i polli. Ma i polli non erano polli, erano pavoni. Non mi piacevano i pavoni
          perché avevano una voce sgradevole e, a vedermi, si irritavano. Mi venivano contro

          col becco aperto. Però ero affascinata dal modo in cui aprivan la coda ricavandone
          un  ventaglio  verde  e  pieno  di  occhi.  Però  il  nonno  diceva:  «Andiamo  a  vedere  i
          polli!».  Mi portava a piedi, camminando lentamente, sicché io gli passavo avanti.
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