Page 11 - Oriana Fallaci - Solo io posso scrivere la mia storia
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Lui non gradiva e, per fermarmi, allungava il bastone dalla parte del manico curvo.
Mi agganciava per il collo. Non ho mai dimenticato la sensazione sgradevole, anzi
terrificante, di quel manico che mi agguantava al collo strozzandomi. E non ho mai
capito perché, facendolo, il nonno ridesse. Però io gli volevo bene lo stesso.
Volevo assai meno bene alla nonna, e la nonna ne voleva poco a me. La nonna
non voleva bene a nessuno fuorché al figlio Mario: lo dicevano tutti. Era molto
piccola, molto grassa, e aveva un occhio solo. O meglio: ci vedeva con un occhio
solo. Quello buono, a destra, era nero. Rancoroso. Quello cieco era un ammasso di
gelatina grigia. Se l’era accecato, adolescente, con un paio di forbici: con un gesto
maldestro. E la leggenda diceva che il nonno se ne sentisse responsabile, che per
questo l’avesse sposata. A quel tempo, infatti, il nonno – ufficiale della Finanza – era
l’amante della mamma della nonna. A quanto si diceva, una donna bellissima. Ma la
nonna, già allora molto brutta, era innamorata di lui e faceva di tutto perché lui lo
capisse. Per esempio, gli regalava le sue fotografie. Un giorno il nonno gliele restituì
tutte bucate. La nonna si mise a piangere, il pianto le offuscò la vista, e per errore si
ficcò le forbici nell’occhio destro. Allora il nonno se ne sentì colpevole e la sposò.
Altre voci dicevano invece che l’avesse sposata per far rabbia a sua madre che
l’aveva piantato.
Anche sul nonno ufficiale di Finanza esistevano molte leggende. Una diceva che
aveva ucciso un contrabbandiere. In Piemonte. La fotografia del nonno vestito da
ufficiale di Finanza stava nel salotto buono. È quella che ora sta a Casole. È una
fotografia dipinta e ritrae un bel giovanottino in uniforme, con la gamba accavallata
come i ballerini in posizione di riposo e sullo sfondo una balaustra che limita un
giardino.
***
La stanza da pranzo col grande tavolo si apriva a sua volta sulla cucina coi fornelli a
carbone e un grande catino. Uno dei primi ricordi della mia vita è quello di mia
madre che piange lavando i panni nel catino. La mamma entrò nella casa di via del
Piaggione a diciotto anni, incinta di me. Il babbo aveva poco più di vent’anni,
quando lei rimase incinta di me, e per sposarsi senza l’autorizzazione dei genitori
bisognava avere ventun anni. Così la sposò il giorno in cui ebbe ventun anni, e a quel
tempo la mamma aveva già il pancione.
Non so nulla dell’incontro di mio padre e mia madre. L’unica traccia che mi
aiuta a decifrare il mistero della mia nascita è una frase della mamma: «Tutta colpa
di un cappello pieno di ciliege». E poi: «Io dovevo trasferirmi a Parigi. Avevo
conosciuto una persona molto ricca che cercava una dama di compagnia per andare a
Parigi. Lui doveva emigrare in Argentina. Ma comprai quel cappello pieno di
ciliege, me lo misi, lui mi vide, e nascesti tu. Addio Parigi, addio Argentina».
So anche che, al tempo del cappello pieno di ciliege, la mamma era molto
corteggiata da Ottone Rosai. E voleva fidanzarsi con lui che, a quanto pare, a quel
tempo amava le donne. (La mamma non avrebbe mai accettato la tesi che Rosai fosse