Page 21 - Oriana Fallaci - Solo io posso scrivere la mia storia
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Quale figlia di Edoardo Fallaci, uno dei capi della Resistenza a Firenze, comandante

          militare per il Partito d’Azione in città, avevo partecipato alla Resistenza contro i
          fascisti e i nazisti. Ero staffetta di città ed anche di montagna. Portavo armi, giornali
          clandestini,  messaggi  ai  compagni  nascosti  o  riuniti  in  formazioni  partigiane.
          Attaccavo  sui  muri,  con  la  colla,  i  manifesti  contro  i  fascisti:  la  sera  prima  del
          coprifuoco. Li infilavo nelle tasche della gente per strada o in tranvai. E per un certo
          periodo il mio lavoro principale fu quello di accompagnare verso le linee alleate,

          dalla  città,  i  prigionieri  inglesi  e  americani  fuggiti  dai  campi  di  concentramento
          italiani dopo l’8 settembre. Li accompagnavo in bicicletta, in viaggi che duravano
          giornate intere: 50 chilometri, anche, ad andare, e 50 a tornare. Bisognava passare
          attraverso i posti di blocco tedeschi ma per me era abbastanza facile in quanto ero
          una bambina dall’aspetto molto infantile. Portavo ancora le trecce. Una volta, dinanzi
          a un posto di blocco tedesco, un ex prigioniero sudafricano (travestito da ferroviere)
          mi cadde. Sapeva andare malissimo in bicicletta. Io cominciai a parlargli in italiano

          e lo tirai su. Le due sentinelle tedesche non prestarono la minima attenzione. Un’altra
          volta mi cadde, sfasciandosi, in piena città, un enorme pacco di «Non Mollare», il
          giornale  clandestino  del  Partito  d’Azione.  E,  anche  allora,  nessuno  mi  prestò  la
          minima  attenzione.  Insomma  molti  incarichi  mi  venivano  affidati  proprio  perché
          passavo inosservata.
               Lavorai col gruppo di Giustizia e Libertà, squadre di azione cittadina, dalla fine

          del  1943  fino  alla  liberazione  di  Firenze:  agosto  1944.  All’inizio  del  1944  mio
          padre venne arrestato. Avevano scoperto un deposito di armi che tenevamo in via
          Guicciardini: le armi paracadutate dagli americani sul Monte Giovi.              15


          Nessuno sapeva  dove  fosse  finito.  Il  quotidiano  di  Firenze  diceva  soltanto  che  lo
          avevano  arrestato  perché  era  un  criminale  venduto  ai  nemici.  (Leggi  Anglo-

          americani.)  Ma  la  mamma  disse:  «Io  lo  troverò». Andò  a  cercarlo  di  prigione  in
          prigione poi a Villa Triste, la centrale delle torture, e riuscì addirittura a introdursi
          nell’ufficio del Capo. Un certo Mario Carità. Questi ammise che sì, il babbo ce lo
          aveva lui, e in tono beffardo aggiunse: «Signora, può vestirsi di nero. Domattina alle
          6 suo marito sarà fucilato al Parterre. Noi non sprechiamo tempo in processi». Io mi
          sono sempre chiesta in che modo avrei reagito al suo posto. E la risposta è sempre

          stata:  non  lo  so.  Però  so  come  reagì  la  mamma.  È  cosa  nota.  Restò  un  attimo
          immobile. Fulminata. Poi, lentamente, alzò il braccio destro. Puntò l’indice contro
          Mario Carità e con voce ferma, dandogli del tu come se fosse un suo servo, scandì:
          «Mario Carità, domattina alle 6 io farò ciò che dici. Mi vestirò di nero. Ma se sei
          nato da ventre di donna, consiglia a tua madre di fare lo stesso. Perché il tuo giorno
          verrà molto presto».    16



          Il babbo venne torturato per diversi giorni, assieme agli altri, e più volte minacciato
          di fucilazione.  17


          Un giorno di marzo, mia madre e una delle mie sorelle e io ottenemmo il permesso di
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