Page 97 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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Faruk El Kaddoumi



                                         Il cervello di Al Fatah





             D’un  tratto  me  lo  trovai  davanti,  che  ascoltava  in  silenzio  le  mie
          domande a un altro.
             Non ricordavo di averlo visto entrare, accomodarsi su quella sedia, e se

          ne  stava  lì  come  apparso  dal  nulla:  una  specie  di  Budda  in  pantaloni,
          giacca  e  kassiah.  Remoto  come  un  Budda,  non  spostava  neanche  lo
          sguardo:   sso  ironicamente  su  me.  L’unico  movimento  con  cui  rompeva
          l’immobilità era una lenta carezza sul pomo di un bastone nero, stretto fra

          le sue gambe. Osservai per prima cosa il bastone; v’era in esso un che di
          insidioso. Poi salii al viso: v’era in esso un che d’inquietante. Occhi gelidi
          e grigi, naso piccolo e tondo, labbra sottili e aspre. Niente ba  e niente
          che assomigliasse ai tratti somatici del palestinese, dell’arabo. Lo avresti

          detto  semmai  un  europeo,  però  non  era  questo  a  colpirti:  era  la  sua
          espressione insieme arguta e crudele, bonaria e spietata, la sua sicurezza
          di sé. Emanava da lui l’inde nibile  uido dell’uomo eccezionale, del capo.
          Da capo lo trattavano tutti del resto, circondandolo in modo rispettoso. Si

          presentò da sé. Disse: «Mi chiamo Abu Lotuf. Signi ca Delicatezza. Padre
          Delicatezza.
             La prego di sentirsi a suo agio, di chiedermi quello che vuole». Aveva
          una voce liscia e robusta, quasi un nastro di seta che ti avvolge il collo per

          strozzarti, e parlava un inglese perfetto. Tra frase e frase lasciava cadere
          pause  tanto  lunghe  che  ascoltarle  era  come  guardare  un   lm  girato
          sott’acqua e proiettato col rallentatore. Nell’attesa bruciavi d’impazienza
          e pensavi: “Chi è? Ma chi è?”.

             Lo  conobbi  così,  dopo  una  telefonata  che  mi  ingiungeva  di  correre
          subito  alla  sede  di  Al  Fatah:  «Non  possiamo  dirle  perché.  Ma  possiamo
          dirle che lei ha molta, molta fortuna». Era una delle mie prime sere ad
          Amman, e non avevo la minima idea di chi andassi ad incontrare. Non

          solo: ignoravo per no che egli esistesse. I palestinesi infatti non lo citano
          mai, non lo espongono mai, e lui non consente di venire fotografato. Per
          scoprire  il  suo  vero  nome  avrei  dovuto  avvicinarlo  più  d’una  volta  e
          insistere  no alla nausea. Quando lo seppi esclamai: «Ma gli israeliani la

          conoscono, no?». «Oh, yes!
             Very much so! Assolutamente sì.» «Dunque possiamo fotografarla, no?»
          «Questo,  voglia  scusarmi,  è  impossibile.  L’ultima  fotogra a  che  gli
          israeliani  hanno  di  me  risale  a  vent’anni  fa.  Nel  frattempo  sono  assai
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