Page 367 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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simpatici coi quali potevi ridere e piangere, dividere il rancio e il posto in
          trincea,  parlare  in  libertà.  Non  erano  i  militari  aperti  e  sinceri  che

          dicevano  (magari  mentendo  o  esagerando)  oggi-ho-  ammazzato-cento-
          vietcong.  Erano  uomini  e  donne  durissimi,  disciplinati   no  alla  nausea,
          chiusi in se stessi, superbi e spesso arroganti. In quel senso, a volte, mi
          ricordavano  i  tedeschi  di  Bismarck,  e  un  giorno  l’ho  detto  all’unico
          u ciale  con  cui  riuscissi  a  scambiare  qualche  battuta  o  qualche  sorriso:

          una colonnella d’un metro e ottanta, Virginia Prybila, che a Riad lavorava
          al  Joint  Information  Bureau.  «Virginia»  le  ho  detto  «siete  diventati
          proprio antipatici. A volte mi ricordate i tedeschi di Bismarck.

             Ma che v’è successo, Virginia?!?» E senza muovere un muscolo del volto
          ferrigno, prussiano, Virginia ha risposto: «Il Vietnam».
             La guerra era appena iniziata e mi trovavo a Manama, la capitale del
          Bahrein,  perché  le  compagnie  aeree  avevano  cancellato  tutti  i  voli  a
          Gedda o a Riad: in Arabia Saudita si entrava soltanto attraverso il ponte

          di  ventiquattro  chilometri  che  unisce  Manama  a  Dahran.  A  Manama  la
          RAF  teneva  i  Tornado  che  andavano  a  bombardare  l’Iraq  e,
          contrariamente  ai  piloti  italiani  che  nell’Abu  Dabi  il  nostro  governo

          costringeva  a  una  ridicola  reclusione,  i  piloti  inglesi  erano  molto
          accessibili.  Stavano  all’hotel  Sheraton,  lo  stesso  dove  alloggiavano  i
          giornalisti, e dopocena potevi incontrarli al bar: sempre pronti a o rirti
          uno  sherry  e  un  sorriso.  «Hi,  my  name  is  Tony  Mc  Glone.  How  do  you
          do?» «Hi, my name is Nigel Risdale. How do you do?» «Hi, my name is

          John  Broedbent.  How  do  you  do?»  «I’m  Rupert  Clarke.  Salve!»  Alcuni
          parlavano anche un po’ d’italiano perché da Laarbruch, la base Nato cui
          appartenevano, venivano spesso a passar le vacanze sul Lago di Garda o

          sul  Lago  di  Como.  Chi  sollecitava  maggior  curiosità  era  Rupert:  un
          londinese  molto  alto,  molto  biondo,  molto  attraente,  che  i  compagni
          consideravano il più bravo di tutti: l’asso della squadriglia. Eppure non fu
          Rupert  a  colpirmi,  quella  sera.  Fu  un  tipo  dall’aria  triste,  insieme
          dignitoso  e  dimesso,  che  sedeva  in  un  angolo:  solo  come  un  uccellino

          appollaiato per proprio conto in fondo a una grondaia piena di garruli
          uccelli. Steve Hicks, il suo navigatore.
             Mi avvicinai. Gli chiesi perché sedesse lì solo. Tenendo la testa china,

          così china che non potevo vedere i suoi occhi del resto  ssi sul bicchiere di
          birra che non beveva, mi rispose che all’alba sarebbe andato in missione.
          «La contraerea funziona, sa? E Rupert vola talmente basso. Ad altezza di
          cammello, si diverte a dire.» «Ma è bravo, Steve! Mi hanno raccontato che
          è il più bravo di tutti!» «Non serve esser bravi. Anche i piloti dei cinque

          Tornado che sono stati abbattuti finora eran bravi. E io ho paura.»
             «Chiunque ha paura, alla guerra, Steve. Chi sostiene di non averne è un
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