Page 368 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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bugiardo. Un cretino o un bugiardo.» «Bé, allora io sono la persona più
          intelligente e sincera del mondo. Perché di paura ne ho tanta. Tanta… Ne

          ho la sera avanti, ne ho quando mi metto la tenuta di volo, quando salgo
          a bordo, quando chiudo la carlinga. Ne ho quando decolliamo, quando ci
          avviciniamo all’obiettivo. E mentre Rupert si abbassa mi chiedo sempre: li
          rivedrò, invecchierò? Ho due bambini, capisci? Uno appena nato e uno di
          tre  anni.  E  ho  ventisette  anni.  Oppure  mi  chiedo:  potrò  telefonarle,

          stasera?»  «Telefonare  a  chi,  Steve?»  «A  Lynn,  mia  moglie.  Mi  fa  bene,
          telefonarle.  Mi  aiuta,  sebbene  abbia  quel  timore  che   nisca  nelle  mani
          degli iracheni… Bé, la capisco. Sembra che li torturino, i prigionieri. Ha

          visto l’espressione di John Peters, il giorno che gli iracheni mostrarono i
          prigionieri in TV? Dei nostri c’era anche Adrian Nichol, e Nichol aveva il
          volto fermo. Peters, al contrario… Chissà che gli hanno fatto. A Laarbruch
          ci mettevano in guardia, sulle torture. Ci spiegavano che a volte usano gli
          elettrochoc, ci preparavano.

             Però  ci  sono  cose  peggiori  degli  elettrochoc,  e  a  quelle  non  ci  può
          preparare nessuno.»
             «Non  pensarci,  Steve.»  «Non  ci  penso.  Perché  io  non  sarò  preso

          prigioniero. A me accadrà qualcosa di peggio. Lo sento, lo so. L’ho detto
          anche a Rupert. Rupert, gli ho detto, io in una di queste missioni ci lascio
          la pelle. Lo sento, lo so. Rupert si è messo a ridere. Mi ha risposto che non
          è  possibile  perché  io  e  lui  siamo  sulla  stessa  barca  e  se  morissi  io
          morirebbe pure lui. E lui non può morire in quanto è immortale. Forse.

          Ma  io  sento  che  Rupert  tornerà  a  casa  e  io  no.»  Poi  smise  di   ssare  il
          bicchiere di birra che non beveva. Alzò  nalmente la faccia mostrandomi
          gli occhi, e un brivido mi corse lungo la schiena. C’era la morte in quegli

          occhi.  Una  morte  così  inevitabile,  così  vicina,  che  quella  notte  non  fui
          capace di dormire e l’indomani non ebbi pace finché seppi che Steve Hicks
          era rientrato sano e salvo alla base.
             Ventisette  giorni  dopo  un  collega  della  rete  televisiva  ITN,  Michael
          Deane, mi chiamò a Dahran. Piangeva, e piangendo mi disse che Rupert

          Clarke era morto. Con Rupert, Steve Hicks. «È successo stamani, vicino a
          Bagdad,  mentre  bombardavano  un  bunker.  Volavano  alti,  stamani,  a
          quattromila metri, ma gli iracheni hanno lanciato due missili Sam e uno li

          ha  beccati.  Il  Tornado  ha  incominciato  a  scendere,  scendere,  e  s’è
          schiantato  nel  deserto  con  una  grande  esplosione.  Una  grande  fumata.
          Rupert non ha fatto nemmeno in tempo ad azionare i paracadute.» «Ne
          sei certo, Michael?»
             «Certissimo. John Broadbent e Nigel Risdale erano nella squadriglia e

          hanno visto bene. Dicono che l’aereo ci ha messo tanto a scendere. Ci ha
          messo almeno un minuto, quasi che Rupert fosse riuscito a mantenerne il
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