Page 128 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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«Sono stanca perché ho partecipato alle manovre e mi duole una spalla
          perché  il  kalashnikov  rincula  in  modo  violento».  Stasera  indossava  un

          modello francese e il suo chic era così squisito che, paragonata a lei, la
          monaca in uniforme resultava ancor più inquietante. Forse perché sapevi
          chi era. Era colei che il 21 febbraio 1969 aveva fatto esplodere due bombe
          al supermercato di Gerusalemme, causando una carneficina.
             Era colei che dieci giorni dopo aveva costruito un terzo ordigno per la

          ca etteria  della  Università  Ebraica.  Era  colei  che  per  tre  mesi  aveva
          mobilizzato  l’intera  polizia  israeliana  e  provocato  Dio  sa  quanti  arresti,
          repressioni, tragedie. Era colei che il Fronte custodiva per gli incarichi più

          sanguinolenti. Ventitré anni, ex maestra di scuola.
             La fotogra a appesa in ogni posto di blocco: «Catturare o sparare». La
          patente di eroe.
             Al suo tono strafottente, provocatorio, ora s’era aggiunta un’espressione
          di  gran  su cienza:  la  stessa  che  certe  dive  esibiscono  quando  devono

          affrontare i giornalisti curiosi.
             Mi  accomodai  accanto  a  lei  sul  divano.  Lasciai  perdere  ogni
          convenevole, misi in moto il registratore: «Voglio la tua storia, Rascida.

          Dove sei nata, chi sono i tuoi genitori, come sei giunta a fare quello che
          fai».  Alzò  un  sopracciglio  ironico,  tolse  di  tasca  un  fazzoletto.  Si  pulì  il
          naso, lenta, rimise in tasca il fazzoletto. Si raschiò la gola.
             Sospirò. Rispose.
             «Sono  nata  a  Gerusalemme,  da  due  genitori  piuttosto  ricchi,  piuttosto

          conformisti,  e  assai  rassegnati.  Non  fecero  mai  nulla  per  difendere  la
          Palestina  e  non  fecero  mai  nulla  per  indurmi  a  combattere.  Fuorché
          in uenzarmi,  senza  saperlo,  coi  loro  racconti  del  passato.  Mia  madre,

          sempre a ripetere di quando andava a Gia a col treno e dal  nestrino del
          treno  si  vedeva  il  Mediterraneo  che  è  così  azzurro  e  bello.  Mio  padre,
          sempre a lagnarsi della notte in cui era fuggito con la mia sorellina su un
          braccio  e  me  nell’altro  braccio.  E  poi  a  dirmi  dei  partiti  politici  che
          c’erano  prima  del  1948,  tutti  colpevoli  d’aver  ceduto,  d’aver  deposto  le

          armi, ma il suo era meno colpevole degli altri eccetera. E poi a mostrarmi
          la  nostra  vecchia  casa  al  di  là  della  linea  di  demarcazione,  in  territorio
          israeliano. Si poteva vederla dalle nostre  nestre e penso che questo, sì,

          m’abbia servito. Prima di andare a letto la guardavo sempre, con ira, e a
          Natale guardavo gli arabi che si a ollavano al posto di blocco per venire
          dai parenti profughi. Piangevano, perdevano i bambini, i fagotti. Erano
          brutti,  senza  orgoglio,  e  ti  coglieva  il  bisogno  di  fare  qualcosa.  Questo
          qualcosa io lo scoprii nel 1962 quando entrai a far parte del Movimento

          nazionale  arabo,  il  Fronte  Popolare  di  oggi.  Avevo  quindici  anni,  non
          dissi  nulla  ai  miei  genitori.  Si  sarebbero  spaventati,  non  avrebbero
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