Page 85 - Oriana Fallaci - Gli Antipatici
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con un salotto che era piuttosto un salone da ballo. Qui mi
trasferii, con violentissima spesa, e alle nove e mezzo del
mattino seguente ero già pronta a riceverlo: con le sigarette su
un tavolo, i fiori su un altro tavolo, un cameriere pronto a
portarci il caffè: «Al signor Fellini piace forte e caldo, mi
raccomando». Sembravo un seduttore che aspetta la sua nuova
vittima per rivelarle le meraviglie del sesso, non mancava che
un poco di musica. Ma le dieci vennero e di Fellini nemmeno la
traccia. Vennero anche le undici e poi mezzogiorno, l'una, le
due, ma di Fellini neanche la voce, il telefono suonò che eran le
tre e mezzo passate ed io inghiottivo insieme alla mortificazione
un té coi biscotti.
«Tesorino, amorino, Orianina, bambina, è da stamani che
chiamo per dirti che sono in ritardo. Ma dove sei, dove vai,
perché non stai mai in albergo. Bè, ti perdono, e alle cinque
sono da te: non un minuto più tardi.» Deposi convinta il
ricevitore: era un bugiardo ma sarebbe venuto. Scesi a prendere
aria. «E Fellini?» chiese con un indefinibile sorriso il portiere.
«Sarà qui alle cinque»
risposi spavalda. Ma le cinque giunsero e Fellini non venne.
Non venne neppure alle sei, neppure alle sette, neppure alle
otto, e mentre il buio calava sul salone dove aveva abitato Reza
Pahlevi, sulla mia attesa delusa, sul mio prestigio schiacciato,
sull'impazienza sempre più irritante del mio direttore che da
Milano chiamava dicendo allora a che punto siamo, allora è
venuto?, suonò liberatore il telefono. «Tesorino, amorino,
Orianina, bambina...» Una complicazione imprevista gli aveva
impedito, materialmente impedito, di venire da me. Ne era
addolorato, confuso, ma lo sapevo che era un uomo con mille
impegni. A chiunque altro avrebbe detto non posso, era già
molto che non si negasse e rimandasse l'impegno. Comunque
mi avrebbe visto quella sera stessa alle undici alla proiezione
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