Page 328 - Oriana Fallaci - Gli Antipatici
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edizione  di  Proust  che  ha  tradotto  splendidamente,  poi  mi
                faceva sedere su un grande divano chiedendomi premurosa se

                volevo un caffè. Svanì del tutto quando andò in cucina a fare il
                caffè,  poi  tornò  con  la  tazzina  e  mi  sedette  accanto,  con  le

                braccia  conserte,  a  ripetere:  «Ma  sarò  capace  di  far  questa
                intervista? Io non sono capace di parlare, ecco. Mi spavento, mi

                impappino,  ecco.  Verrà  una  cosa  moscia,  ecco.  E  poi,  poi

                niente. Ecco». Punteggia qualsiasi frase di


                «ecco»,  «poi,  poi  niente»,  «ecco»:  un  vezzo  di  cui  non  si

                accorge  e  usa,  credo,  per  minimizzare  ogni  cosa,  trasformare
                anche i fatti più gravi in fatti qualsiasi. La sua voce è graziosa,

                una voce che hanno generalmente le donne fatali: stupisce come
                se fosse la voce di un'altra, ed affascina. Con quegli ecco, quel

                poi,  poi  niente,  quella  voce,  mi  affascinò  un'intera  mattina
                rispondendo ubbidiente a qualsiasi domanda, accettando docile

                qualsiasi argomento compresa la morte di Leone Ginzburg della
                quale  non  ama  parlare  né  scrivere  sebbene  siano  passati

                vent'anni.  Di  Ginzburg  ripeteva  sempre  che  era  brutto,

                bruttissimo, intelligente e bruttissimo, serio e bruttissimo, colto
                e  bruttissimo,  sicché  a  un  certo  punto  le  chiesi  se  avesse  una

                fotografia  e  lei  si  alzò,  andò  al  piano  di  sopra,  tornò  con  la
                fotografia incorniciata di un bel giovanotto dai riccioli neri, il

                gran naso israelita, le lenti da miope sugli occhi severi. «Ma non
                era brutto!» esclamai. E lei sorrise contenta, coi grossi denti cui

                manca un canino ma cosa le importa se il buco si vede, poi posò
                la  fotografia  sopra  un  tavolo  e  per  qualche  secondo  rimase  a

                guardarla,  in  silenzio,  le  mani  strette  sulla  cornice,  la  testa
                piegata sopra una spalla come certe Madonne inginocchiate ai

                piedi del Figlio. In seguito si dimenticò di levarla e la fotografia
                restò lì, a guardarci con gli occhi severi, il ricordo ossessionante

                di «allora».



                La conversazione era spesso interrotta dalle telefonate dei figli



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