Page 105 - Oriana Fallaci - Gli Antipatici
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film così inaugurando una esperienza singolare ed esaltante, non
vidi molto, ricordo pochissimo. Ma ricordo, precisi come una
carezza o uno schiaffo, struggenti come il primo amore, gli
occhi di Arletty. E fu per quegli occhi, non per Prévert e Carnè,
che tornai a rivederla: imparai ad amare pellicole di cui dire
«Non le conosco» equivale a comprarsi il diploma di ignorante.
La ammiravo, ne sognavo l'autografo. Né mi distoglieva da
questo la voce che fosse stata una collaborazionista durante
l'occupazione tedesca, o perlomeno che avesse frequentato i
nazisti mentre i suoi compatriotti morivano facendo i maquis.
Per me dunque intervistare Arletty era intervistar la leggenda,
un mondo che non avevo conosciuto, una cultura che avevo
perduto. Né immaginavo che l'incontro con lei fosse tanto
penoso, allucinante, crudele. Mi son capitate molte interviste
tutt'altro che allegre, dacché fo questo mestiere. Quella con Chet
Baker che giaceva con la camicia di forza in un manicomio di
Amburgo dopo essere stato arrestato per via della droga e
piangeva dicendo hai visto, ci son ricascato, fu un'intervista
penosa. Quella con Malaparte che aveva pochi giorni di vita e
diceva ha visto, Oriana, mi tocca morire, ed io lo facevo parlare
per scriver l'articolo prima che fosse morto, fu un'intervista
crudele. Quella con la piccola sposa musulmana che aspettava
d'essere presa da un marito che non aveva mai conosciuto e
avrebbe conosciuto soltanto l'indomani mattina dopo avere
dormito con lui, fu un'intervista allucinante. Nessuna però
quanto quella con Arletty che allungava le scarne mani di nonna
per toccarmi la fronte, il naso, la bocca, capire chi ero e la faccia
che avevo; oppure tentava di accender da sola la sua sigaretta
mentre l'accendino rincorreva inutilmente la punta: ora
spostandosi un po'"troppo a destra ora spostandosi un
po'"troppo a sinistra infine rischiando di scottarle le labbra.
Sapevo ovviamente che Arletty fosse malata agli occhi: mi
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