Page 15 - Oriana Fallaci - I sette peccati di Hollywood
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Preludio


                    Chi  dice  Hollywood  pensa  subito  a  Marilyn  Monroe.  Ma  è
                inutile  che  cerchiate  in  questo  libretto  un  ritrattino  o  una

                intervista  con  Marilyn  Monroe.  Non  c'è.  Sono  stata  a
                Hollywood  più  di  una  volta,  vi  sono  rimasta  una  lunga
                insopportabile  estate,  sono  entrata  nelle  case  dei  divi,  ho

                mangiato  con  loro,  ho  fatto  il  bagno  nelle  loro  piscine.  Ho
                subito le loro lacrime, le loro bugie e la loro boria, ma non ho

                mai,  dico  mai,  parlato  a  quattrocchi  con  la  signorina  Jean
                Mortenson, in arte Marilyn Monroe. E, tutto sommato, non mi

                dispiace: sebbene siano molti gli ingenui che mi compiangono
                per questo.

                  Infatti la mia avventura con la Monroe, che dura ormai da tre
                anni, come una specie di scommessa o di maledizione, è la più
                assurda che possa capitare a una giornalista.

                    La  mia  avventura  cominciò  a  Hollywood  la  mattina  del  9
                gennaio 1956 quando mi recai dal regista Jean Negulesco con

                una valigia piena di camicie da uomo. Era la prima volta che
                andavo  in  America,  mi  sarei  trattenuta  pochissimi  giorni  a

                Hollywood e a New York e c'era un solo argomento che volevo
                affrontare  da  vicino:  Marilyn  Monroe.  Sapevo  che,  da  alcuni

                mesi,  incontrare  l'attrice  era  diventato  misteriosamente
                impossibile,  ma  non  me  ne  preoccupavo.  Ero  riuscita  a
                intervistare  Soraya  nella  sua  reggia  di  Teheran  nei  giorni  di

                maggiore tensione, avevo parlato con Townsend a Bruxelles nel
                periodo  in  cui  egli  sfuggiva  ai  giornalisti  come  un  gatto

                arrabbiato, e pensavo che, dopotutto, Marilyn era soltanto una
                diva:  qualcosa  di  meno,  cioè,  di  una  imperatrice  e  di  un

                pretendente alla mano di una principessa d'Inghilterra.
                    La  mia  fiducia  era  alimentata  inoltre  da  dodici  camicie  da

                uomo  che  Pepi  Lenzi,  un  attore  italoamericano,  mi  aveva
                consegnato a Roma perché le portassi a Jean Negulesco. L'attore
                le  giudicava  più  potenti  di  una  lettera  di  credito.  Io  n'ero

                convinta.  Le  avevo  sistemate  nella  valigia  con  divozione,  e



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