Page 96 - Oriana Fallaci - 1968
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in Vietnam, a neanche due anni di distanza dal grande attentato
                che  distrusse  la  vecchia  ambasciata  con  una  bomba  da

                centotrenta  chili.  E  centosettantacinque  morti.  La  battaglia  è
                durata sei ore, fino alle nove del mattino. Erano quasi le dieci

                quando  abbiamo  potuto  avvicinarci.  Nel  fumo,  tra  le  pietre
                divelte.  Abbiamo  contato  i  cadaveri:  erano  trenta.  Dieci
                americani e venti vietcong. Ma qualcuno dice che sono di più.

                Qualcuno ricorda ciò che l’architetto Frank Martin dichiarò lo
                scorso  settembre  durante  l’inaugurazione  dell’edificio:  «La

                sicurezza  è  stata  la  nostra  preoccupazione  principale.  Questa
                nuova  ambasciata  potrà  resistere  a  ogni  attacco.  Perfino  le

                finestre  sono  a  prova  di  pallottola.  Tutto  plexiglas  e  cemento
                armato  e  pietre  rinforzate  come  nei  bunker.  È  costata  due

                milioni e mezzo di dollari, ne valeva la pena».


                ADDIO A SAIGON. Domani lasciamo il Vietnam. Ci sembra quasi

                assurdo rientrare in un mondo dove si piange per un morto solo
                e  non  si  sente  sparare  i  cannoni.  In  certo  senso  ci  sembra  di

                fuggire,  disertare.  Proviamo  come  una  colpa,  un  rimpianto.
                Comprendiamo coloro che son qui da mesi, da anni, a rischiare
                la pelle: c’è qualcosa di magico in questo paese, in questa città.

                Forse la stessa tragedia: lo spettacolo della morte ti fa sentir così
                vivo quando sei vivo. Dinanzi alla morte ogni momento, ogni

                oggetto, ogni gesto diventano preziosi. E il cibo è più buono,
                l’amicizia più profonda, l’allegria più allegra. Dalla terrazza del
                mio  albergo  guardo  Saigon.  Così  brutta,  così  affascinante.  Le

                venditrici di acqua che corrono a piccoli passi sotto i cappelli a
                pagoda, bilanciando la merce sui piatti a stadera che pendono da

                una canna di bambù. I risciò che si tuffano come bambini ciechi
                nel traffico folle esponendoti ai camion, al terrore. Le jeep degli

                americani che passano con la mitragliera spianata. Le splendide
                donne dai corpi sottili e i capelli lunghi che dondolano dietro le

                spalle come veli neri. Le fortificazioni coi sacchi di sabbia da
                cui si affaccia sempre un soldato impaurito, pronto a spararti.
                Gli  accattoni  ciechi  sui  marciapiedi.  Le  palme  verdi  dentro  i
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