Page 415 - Oriana Fallaci - 1968
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mentre  saltano  nel  vuoto,  questi  omini  vestiti  d’una  tuta
                d’argento, la bombola colma di ossigeno attaccata alle spalle, la

                testa chiusa dentro un casco di plexiglas. Sembrano palombari
                che riparan la falla a una nave, fluttuan perfino come se fossero

                in  acqua,  ed  hanno  tanto  coraggio,  perdio!  Lo  hanno  anche
                quando rientrano e a turno si tolgon la tuta, si gettano sopra la
                branda.  È  brutta  quella  branda:  perché  sono  probabili

                condannati  a  morte.  Sono  in  prigione.  Sarà  giorno,  sarà  notte
                sulla  palla  lontana  che  chiamano  Terra?  Da  una  parte  sarà

                giorno  e  dall’altra  notte:  ma  la  notte  poi  diverrà  giorno,  ed  il
                giorno poi diverrà notte. Qui invece la notte è sempre la notte.

                Senza ieri e senza domani. Ti stendi sopra la branda e che dici ai
                compagni  che  rimangono  seduti  ai  comandi?  Buonanotte?

                Buongiorno?  Buon  pomeriggio?  Buon  niente?  Buon  niente.
                L’uomo si stende sulla branda, in silenzio, si allunga. Chiude gli
                occhi, sogna gli ieri e i domani. Sogna la sua casa, la sua donna

                fra i lenzuoli, la Terra.
                    Non  che  sognare  sia  lecito,  anzi  prudente.  Il  cervello  si

                stanca  a  sognare,  e  stancarsi  è  suicidio:  le  cose  da  fare  son
                troppe. Il primo giorno la forza di gravità della Terra rallenta la

                corsa di 6500 miglia all’ora: bisogna accelerare senza perdere
                carburante eccessivo. Il secondo giorno la forza di gravità della

                Terra rallenta di sole 1500 miglia all’ora: ma il terzo giorno la
                forza  di  gravità  della  Luna  comincia  a  risucchiarli  e  bisogna
                decelerare per non caderci a picco. Bisogna scivolarvi a poco a

                poco, così, entrare nella sua orbita, così, a sessanta miglia sopra
                la  Luna,  non  prima  e  non  dopo,  staccare  l’Insetto.  È  ormai

                giunto il momento  di salutarsi  e dividersi:  un astronauta  resta
                nell’Apollo,  gli  altri  due  si  calano  giù  nell’Insetto,  nel  LEM.
                Buona fortuna, compagno. Buona fortuna, compagni. La botola

                attraverso  la  quale  si  sono  calati  vien  chiusa,  i  due  prendono
                posto  nella  nuova  prigione,  ai  nuovi  comandi.  Lentamente  si

                svitano dalla capsula Apollo poi scendono a dieci miglia sulla
                superficie  lunare:  per  decidere  il  punto  dell’atterraggio.  Quel

                cratere  lì  sotto.  Ha  l’aria  d’essere  buono,  sicuro.  Ha  l’aria
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