Page 11 - Oriana Fallaci - 1968
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«Non  voglio  tornare  in  battaglia.  Sono  così  giovane  e  ho
                tanto  tempo  da  vivere,  e  non  si  viene  al  mondo  per  morire  a

                venti anni alla guerra. Si viene al mondo per morire in un letto,
                quando si è vecchi.»

                    «E  poi  ammazzai  un  uomo.  Era  un  piccolo  viet.  Correva,
                correva, e gli sparavano tutti. Sembrava d’essere al tirassegno di
                un luna park. Gli ho sparato io ed è caduto. Ma è stato come

                sparare ad un albero. Non ho sentito nulla, sai, nulla.»
                    «Signora, è vero che è così brutto lassù?» «Ma no, soldato,

                ma no. Oggi è quieto, vedrai.»
                    «Lasciatemi in pace. Non m’importa di nulla, non m’importa

                nemmeno di morire.»
                    Poi è arrivato un razzo. E di lui è rimasta soltanto una scarpa.



                LUNEDÌ  MATTINA.  La  tragedia  incomincia  con  la  paura.  E  la
                paura incomincia appena sali sul cargo militare che ti conduce

                alla  zona  del  fuoco  insieme  ai  soldati  che  tacciono  in  un
                rassegnato  silenzio.  Ieri  un  cargo  come  questo  è  precipitato,

                sembra per un sabotaggio, e nessuno ha fatto in tempo a usare i
                paracadute  con  cui  dovremo  buttarci  se  saremo  colpiti.  Del
                resto, il paracadute a che serve? Mentre cali a terra ti sparano,

                voliamo su una regione che pullula di vietcong. Fa caldo, sudi.
                Anche  perché  il  soldato  accanto  ti  fissa  da  almeno  mezz’ora

                scuotendo  la  testa  e  poi,  cercando  di  superare  il  rombo  dei
                motori, ti grida: «Sei giornalista?». «Sì.» «E il lungo con te è un
                fotografo?» «Sì.» «Andate a Dak To?» «Sì.» «Idioti, chi ve lo fa

                fare?» Te lo chiedi anche tu, all’improvviso. Hai superato tanti
                ostacoli  per  arrivare  fin  qui,  visti  permessi  burocrazie,  e

                all’improvviso vorresti esser mille miglia lontano dove la guerra
                è solo una parola, una fotografia sul giornale, una immagine alla

                televisione. Provi a scherzare, la voce ti suona falsa: «Moroldo,
                ci pensi alla faccia dell’ambasciatore quando gli consegnano i

                nostri cadaveri?». Per raggiungere Dak To abbiamo firmato un
                foglio con cui sdebitiamo le forze armate e il governo degli Stati
                Uniti  della  nostra  possibile  morte,  e  in  fondo  al  foglio  c’era
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