Page 11 - Le canzoni di Re Enzio
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Ei campeggiò sul Reno e sul Visurgi.
            Franse i giganti Cauchi e Langobardi.

            Portò, trent’anni, l’armi il vallo e il vitto.
            Cenò la pulte con l’aceto e il sale.

            Ebbe ferite e un ramuscel di quercia.
            Poi vecchio arò due iugeri di terra.

            Le glebe allora ei debellava, e gli era
            pilo la vanga e gladio la gombiera.

            Spiò nel volo degli uccelli il tempo
            della sementa e della mietitura.

            Piantò gli alberi a file di coorte.
            Non trombe all’alba altre sentì, che il gallo.

            Non fu nel campo altro ronzìo, che d’api.
            Poi, di quel campo, in un de’ suoi nepoti,

            servo rimase. E portò lino al Duddo
                       e vino allo Scafardo.



            L’altro a cavallo dietro il suo Sculdascio

            giunto era qui con la selvaggia fara:
            rasa la nuca, la capellatura

            attorno al viso mista alla gran barba.
            Vide i gasindi dar la lancia a Clefi,

            vide ferir nella colonna Autari.
            Quindi nel nome del suo Dio, nel nome

            della sua spada, ebbe una casa e il bosco.
            Tenne il cavallo, serbò scudo e lancia,

            se lo chiamasse all’eribanno il Duca.
            Ed avventò contro le sacre quercie

            la vecchia scure delle sue battaglie.
            Ed allevò gli utili porci, e trasse

            ai fòri antichi le grugnenti greggi.
            Poi si trovò, ne’ suoi nepoti, schiavo,

            esso arimanno! Né più v’era attorno,
            chi la saetta gli ponesse in mano,

            chi lo adducesse al libero quadrivio.
            Ora, egli ammira l’armi del Comune,

            fermo sul suo pungetto.






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