Page 10 - Le canzoni di Re Enzio
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Giace su questo un albero da nave,
alto, ferrato. Attendono nell’ombra
uomini e bovi il cenno della squilla.
Guardano in tanto. Attorno lor non sono,
nella rimessa, acute vanghe e zappe,
falci e frullane, non il curvo aratro,
né coreggiati né pennati appesi
alle pareti o flessili crinelle:
sì lancie e scudi e selle e cervelliere,
balestre grosse e loro saettame,
guanti di ferro, elmi di ferro, e trulli,
trabucchi e manganelle.
Dice Zuam Toso: «Il carro, non di concio
credo vi sappia, non di grano e mosto.
Non uve frante egli portò; sì morti,
grandi e bei morti, e sente forse il sangue.
Io l’amo, o genti, ch’io nell’anno nacqui
ch’egli fu fatto. Ahimè! com’egli ha salde
le membra sue di rovere e di faggio!
Io sono invece canna di palude...
Ma non fui sempre. Non tremiamo al vento
noi! Come ha scritto il savio Rolandino.
Dicea mio padre, che Dio l’abbia in gloria,
che Barbarossa minacciò Bologna.
E noi facemmo questo greve carro
per uscir fuori, lenti lenti, al lento
passo dei bovi; e c’era un grande abeto
in cime all’Alpe, vecchio come Roma:
noi ne facemmo questa lunga antenna,
ch’ei la vedesse; e suvvi la campana;
che pur lontana egli la udisse chiara
tra il trotto dei cavalli».
Tacciono, all’armi guardano i biolchi.
Chi guarda è un altro che in lor è: l’Antico.
Fermo sul suo pungetto, uno è un astato
che avea seguito l’aquile di Druso.
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