Page 8 - Le canzoni di Re Enzio
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che s’alzano soffiando.
E parla il Toso, volto a gli arimanni,
volto ai manenti: «Io vedo ormai più poco.
Ben converrà che il frate mio m’aiuti,
buon uomo e savio: ch’io non son quel ch’ero
quando il passaggio feci in Terra Santa.
Oh! mi ricordo Orso Cazanimici,
Pietro Asinelli, Scappa Garisendi,
pro’ cavalieri: io, piccolo ragazzo.
Io, sì, tornai: niuno tornò, di loro,
sì che in Bologna ne fu poi gran pianto.
Poi l’altra volta mi crociai. Ricordo
il Lambertazzo e il Geremeo seduti
placidi all’ombra, all’ombra d’una palma.
Era in Soria. Tenevo io per le briglie
i due cavalli: si mordean rignando...»
Quivi un biolco avanti trae la coppia
prima de’ bovi, e dice: «Misèr Toso...»
E quei dà luogo, ed esce nella piazza.
Sotto l’Arengo vi son già fanciulli
con gli occhi aperti al cielo.
Vogliono il re. Dice Zuam Toso: «Andate!
Quando ero putto come voi, ben altro
io vidi! Vidi, grande, alto a cavallo,
l’imperatore dalla barba rossa.
Lì!» Gli occhi tondi vanno dietro al dito.
«Egli solcava col suo grande aratro
le piazze e vie delle città romane:
seguiano il solco nugoli di corvi».
Più lungi è un crocchio di donzelle e donne;
chinano gli occhi all’appressar del Toso.
E il Toso dice: «E quale di voi, donne,
quello ch’io vidi, poté qui vedere?
Santo Francesco. Trito, macilento,
piccolo; in veste disusata e vile.
Ma e’ parlò così soavemente,
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