Page 67 - La passione di Artemisia
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Mi prese la mano. «Glieli insegnerai tu. Ne sono sicuro».

              «Se muoio, se muoio, Pietro, da i miei quadri a mio padre. No. Non a
          lui. Può guardare. Voglio che guardi. A mia madre. Non, non era giusto. A
          Graziel...ahh...la».

              «Non parlare».
              «Uno a lei e uno a Paola. Gli altri a te».
               Arrivarono la levatrice e la sua assistente, portando una tinozza di legno
          e una sedia da parto con le maniglie e i lacci e un buco nel mezzo. Aveva
          l'aspetto di uno strumento di tortura da Inquisizione. Chiusi gli occhi.

              «Adesso  ci  lasci,  signore»,  disse  la  levatrice.  «Vada  ad  accendere  il
          fuoco».
              Urlavo, piangevo e spingevo.

              «No,  non  spingere  ancora»,  mi  ordinò  la  levatrice.  «Ci  vuole  ancora
          molto tempo».
               Per ore cercai di fare quello che mi dicevano, tentai di non spingere, le
          supplicai di lasciarmelo fare, mi riposai nelle pause. Ancora e ancora. Non
          sapevo  dove  fosse  Pietro.  Non  mi  importava.  Ogni  volta  che  arrivava  la

          doglia sentivo me stessa urlare. Sarebbe andato avanti in eterno?
              «Fatelo smettere», urlai. «Datemi qualche cosa. Lo so che potete farlo
          smettere».

              «No, piccola. Sei venuta al mondo per sopportare questo dolore. Fin dai
          tempi di Eva è il fardello di ogni donna».
              «No! Io sono nata per dipingere!»
              Poi il dolore più feroce e più lungo di tutti.
              La levatrice mi fece sedere sulla sedia. «Sta uscendo.

              Spingi adesso!» disse.
              Tutto il mio corpo si rattrappiva e spingeva e premeva.
               Quasi come se volesse spingersi contro il pavimento.  Emisi delle urla

          animalesche. Infine il sollievo. Il sonno. Volevo dormire.
               Mi risvegliai a letto: come c'ero arrivata? Dal ventre, ondate di dolore si
          gonfiavano  verso  il  cranio.  Volevo  tenerla  in  braccio.  Una  bambina.  Che
          colore.  Pallido  cinabro.  Un  pugnetto  di  faccino.  Un'orecchietta  traslucida,
          perfettamente  scolpita  nella  cera.  E  Pietro.  Pietro  era  qui.  Pietro  in

          ginocchio.
               Accanto a me. Che cantilenava: «Che amore di bambina». Pietro, con un
          bitorzolo purpureo sulla fronte.

               La  chiamammo  Palmira  Prudenzia.  Palmira  come  la  madre  di  Pietro.
          Prudenzia come la mia. Non parve affatto deluso che fosse una bambina. In
          quanto  a  me,  ero  immensamente  felice.  Una  figlia.  Una  meraviglia.  Un
          miracolo.
               Un giorno una bellissima donna. Sentivo già il suo effetto, un presagio



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