Page 64 - La passione di Artemisia
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«Dobbiamo fare i preparativi».

              Mi misi a ridere. «Non ancora».
              «Lo      chiameremo           Pietro      Giovanni        Andrea       Filippo      Leonardo
          Michelangelo Stiattesi. Un bel nome per un bel figlio».

               Il suo entusiasmo e il mio sollievo ricacciarono in fondo alla mente il
          disappunto per l'Accademia.
               Come circondata da una sorta di alone luminoso, in quei sei mesi cercai
          di  portare  a  termine  il  maggior  numero  di  dipinti,  ma  l'odore
          dell'acquaragia  mi  faceva  venire  la  nausea  e  certi  giorni  non  riuscivo  a

          lavorare per nulla.
               Non volevo dare troppa importanza alla cosa, anche se avrebbe potuto
          sembrare  un  cattivo  presagio:  la  maternità  in  contrasto  con  la  pittura.

          Pietro  portò  la  tela  a  cui  stava  lavorando  e  i  suoi  colori  e  pennelli  nello
          studio  di  un  amico  per  terminarla,  in  modo  che  l'odore  non  mi  desse
          fastidio.
               Un  giorno,  mentre  Pietro  era  fuori,  scoprii  che,  se  mi  avvolgevo  un
          fazzoletto  ripiegato  a  triangolo  intorno  al  viso,  coprendo  naso  e  bocca,

          riuscivo a dipingere. Quando tornò a casa mi trovò così.
              «Toglitelo», mi disse con asprezza.
              «Perché?  In  questo  modo  non  respiro  né  l'odore  dell'olio,  né

          dell'acquaragia».
              «Toglitelo». Non voleva guardarmi.
              Non riuscivo a comprendere come la cosa potesse offenderlo.
               Guardando  quell'espressione  scura  ebbi  paura  di  chiederglielo.  Non
          voleva  che  dipingessi?  Riposi  sul  balcone  la  tavolozza,  i  pennelli  e  le

          bottiglie  di  olio  di  lino  e  di  acquaragia,  chiusi  la  finestra  e  mi  tolsi  il
          fazzoletto.
              «Non voglio vederti mai più così».

               Mi  affaccendai  in  cucina,  preparai  per  cena  pasta  e  melanzane  e
          fagiolini, ma non avevo fame. Sistemai i cuscini sulla panca per le pose e mi
          distesi sulla schiena, con le mani sul ventre, sperando di avvertire qualche
          movimento.
              Mentre mangiava rimanemmo entrambi in silenzio.

              «E solo che ho una tale voglia di dipingere», dissi piano.
               Sentii  il  suo  cucchiaio  sbattere  sul  tavolo.  «Quando  ero  ragazzo  mia
          madre, e tutte le donne che non potevano fuggire dalla città, si mettevano

          dei fazzoletti simili al primo accenno di peste. L'ultima volta che la vidi ne
          aveva  uno  e  mi  diede  un  bacio  attraverso  la  stoffa,  prima  che  mio  zio
          portasse via Giovanni e me».
               Deglutii.  «Non  lo  sapevo».  Un  rivoletto  di  sudore  mi  scivolò  verso  la
          tempia. «Mi dispiace. Non lo farò più».



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