Page 30 - La passione di Artemisia
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camicia da notte, infilavo i piedi nelle vecchie pantofole e cominciavo a
dipingere con la prima luce dell'alba, prima di essere distratta dai venditori
ambulanti, dallo stridore dei loro carretti e dai litigi dei vecchi. Amavo
quelle tranquille ore della mattina strappate allo spettacolo da baraccone in
tribunale, e temevo il momento in cui papà mi diceva che era tempo di
smettere, perché dovevamo andare.
Mi sentivo frustrata, quando le mie mani non facevano quello che avrei
voluto. Tenendo il pennello tra le dita diritte, cercavo di lavorare di polso
invece che di dita. A volte perdevo il controllo e il pennello mi scivolava
dalle mani. Per settimane, ogni giorno dopo le udienze, papà andava al
Casino delle Muse del cardinale Borghese ad affrescare il soffitto e io mi
precipitavo a casa a dipingere, fino a che le sere estive lasciavano posto alla
notte, accesa dal pensiero che sia Giuditta che io stavamo compiendo un
atto di giustizia.
Un giorno dipinsi due rughe verticali tra le sopracciglia di Giuditta,
come aveva fatto Caravaggio, a dimostrazione che per Giuditta era stato
difficile uccidere. Il giorno seguente, in tribunale, Agostino mi lanciò
un'occhiata minacciosa, perché sapevo che era un assassino, e quel
pomeriggio, tornata a casa, cancellai le rughe.
Volevo dare a Oloferne, nell'istante in cui aveva capito che stava per
morire, la stessa espressione che aveva avuto Agostino quando lo avevo
chiamato assassino. Volevo che la sua fronte fosse solcata da profondi
avvallamenti, che gli occhi fossero dilatati, fissi per il terrore, ma ancora
coscienti, col bianco visibile al di sotto delle pupille. Immersi il pennello
nel marrone scuro. Dovetti piegare le dita per tenerlo più saldo e poterne
avere il controllo nel tracciare la linea sottile attorno alle pupille. Le croste
si spaccarono, ma non smisi di lavorare, entusiasta per quello che stava
prendendo corpo sulla tela: quegli occhi scuri e pieni di terrore, che mi
supplicavano.
Quando allontanai la mano, alcune gocce di sangue caddero sulle
lenzuola bianche del letto di Oloferne. Il contrasto tra il rosso intenso e
brillante e il bianco mi entusiasmò.
Spremendo, feci spillare altro sangue, godendo del dolore e lo feci
cadere sotto la sua testa, mescolai del vermiglione e del ruggine per
eguagliare quel rosso e ne aggiunsi altro. Torrenti di sangue. Una cascata di
intenso cremisi, che imbeveva i drappeggi del ricco copriletto. Come il
sangue che aveva imbevuto le mie maniche in tribunale. O il sangue che
avevo cercato di tamponare dopo il primo stupro. E macchie di sangue sulle
nocche di Giuditta. Se Roma era assetata di effetti spettacolari, effetti
spettacolari le avrei dato.
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