Page 24 - Papaveri e papere
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tardive che espongono i «grandi» al cachinno di noi sudditi. Ridere alle
loro spalle? No, anzi tecnicamente è proprio il contrario: la gaffe ci
permette di ridere in faccia a chi di solito incede coperto dal laticlavio, o
protetto dal manto magico della fama. Da questo punto di vista, il suo
potenziale eversivo è molto più elevato della maldicenza, che si esercita
nell’ombra e colpisce nell’anonimato.
Prima di trasformarsi in merce da settimanale patinato, il pettegolezzo
sul potere funzionava in effetti (e ancora funziona nei regimi autoritari)
come sola forma di critica possibile contro gli abusi del comando,
canale di dissenso e Cahier des doléances di una plebe privata di voce.
È un genere di dissenso che noi italiani abbiamo sperimentato per primi.
Esiste addirittura all’Aquila, da tempi immemorabili, una Confraternita
dei Devoti di sant’Agnese votata alla maldicenza: e la compongono
persone degnissime, che argutamente assimilano il «dire male» all’arte
socratica della maieutica. Non risulta, purtroppo, che il filosofo si sia
occupato anche delle gaffe, ma certo ne avrebbe fatto un uso affilato,
forse affrettando la decisione dei suoi parzialissimi giudici di servirgli
un cocktail di cicuta.
Non chiamatelo Bartolomeo…
Ma la gaffe non si può spegnere nemmeno con il veleno. È
incancellabile. Uno sfregio indelebile sulla guancia di chi la pronuncia.
Quando capita a uno di noi, la reazione degli astanti è di solito mista,
tra l’ilarità repressa e la costernazione. Se la vittima è un potente,
prevale invece la soddisfazione, un diabolico compiacimento. Vale
anche per la forma più comune di faux pas: lo strafalcione linguistico.
Gli esempi sono pressoché infiniti. Ci sono i tedeschi che restituiscono
al condottiero dal nome italianizzato, Bartolomeo Colleoni, il suo
originario Colioni (si chiamava precisamente Bartolomeo Coglione, per
la caratteristica di possederne tre, come confermato dal suo stemma).
Non mancano nemmeno i germanici che «si scoreggiano» di fronte alle
difficoltà, mentre mia moglie (greco-russa) insiste a chiamare «tette» le
ondulate distese di tegole normalmente definite «tetti». Ma noi italiani
rendiamo il colpo con gli interessi quando ci capita di parlare russo con
qualche approssimazione: in questo caso devo auto-denunciarmi, e
ammettere che anziché l’intenzione di scrivere (pisàt) talvolta ho
annunciato quella di urinare (pìsat).
Sempre a Mosca, un atleta azzurro con qualche lezione di russo alle