Page 65 - Francesco tra i lupi
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Padre Ignacio Pérez del Viso è stato docente di Bergoglio e lo ha seguito nella sua traiettoria. Lo incontro a
    Buenos Aires e gli ricordo l’intervista del pontefice alla «Civiltà Cattolica», domandandogli perché l’esperienza
    di  superiore  provinciale  della  Compagnia  di  Gesù  sia  stata  per  Bergoglio  un  fallimento.  «Il  papa  non  la
    definisce un fallimento», mi previene. Si potrebbe considerarla tale, preciso, perché mai si è visto un papa così
    spietatamente autocritico verso se stesso.
      «Era un Provinciale molto esigente», spiega il quasi ottantenne padre Ignacio. E descrive quanto accadeva
    nella Compagnia di Gesù durante gli anni Settanta e i fenomeni rispetto ai quali Bergoglio si sentì in dovere di
    intervenire. «Si manifestava un certo disordine post-conciliare, una tendenza all’assemblearismo, talvolta un
    ribaltamento teologico». Bergoglio si oppose. E mise fine anche alla «mania di vivere in piccoli appartamenti»,
    che per alcuni gesuiti di allora rappresentava un mezzo per immergersi maggiormente nella società. Volle che
    gli  studenti  stessero  tutti  nel  collegio  San  Miguel,  pretese  che  in  certe  occasioni  portassero  di  nuovo  il
    collarino,  «rimosse  alcuni  professori  troppo  avanzati».  Rappresentò  una  linea  d’ordine  contro  ciò  che  il
    Vaticano nella fase del dopo-concilio percepiva come frettoloso abbandono delle regole.
      Pérez ricorda ancora che al tempo della dittatura il generale Videla, infuriato per un articolo sui diritti umani,
    fece sequestrare in un’occasione tutte le copie di una rivista dei gesuiti, il periodico del Centro di indagine e
    azione sociale (Cias). Bergoglio decise allora che ogni articolo gli sarebbe dovuto essere mandato in anticipo.
    «Una censura preventiva – chiosa padre del Viso – e io approvo certe limitazioni in periodo di emergenza, solo
    che bisogna sapere quando porvi nuovamente fine».
      Sconcerto e polemiche causò la decisione di Bergoglio di dismettere l’Università Salvador, fondata e gestita
    dai gesuiti. Era piena di debiti e Bergoglio non voleva assolutamente che la Compagnia fosse coinvolta in
    disordini finanziari. Così la privatizzò totalmente, la cedette ad un’associazione di laici e anzi proibì che vi
    insegnassero  professori  gesuiti  tranne  su  sua  esplicita  autorizzazione.  La  vicenda  gli  procurò  molti  nemici
    interni.
      Padre del Viso rammenta che prima della sua nomina si fece una consultazione tra i gesuiti locali. «Io mi
    opposi alla sua candidatura, perché era giovane e non era stato superiore di nessuna comunità, aveva avuto a
    che fare solo con novizi. Ed è una bella differenza: il giovane lo rimproveri una volta, due, e poi lo mandi via.
    Imparare a convivere in una comunità religiosa con persone difficili è diverso». Un superiore deve conoscere
    l’arte di padroneggiare le difficoltà. Per esempio, racconta del Viso, nella sua comunità di allora c’erano tre
    gesuiti alcolisti, che andavano anche alla ricerca del vino da messa. Situazioni spinose da gestire.
      Nel 1973 fu comunque deciso che Bergoglio diventasse superiore provinciale. «Si disse che non c’erano altri
    candidati di qualità e che lui aveva una visione chiara di ciò che bisognava fare e una forte spiritualità». Per
    molti, conclude l’anziano gesuita, Bergoglio rappresentò un buon superiore provinciale, per una minoranza
    no. A fine colloquio, dopo avere parlato di tante altre vicende della Chiesa in Argentina, padre del Viso mi
    saluta e aggiunge: «Il fatto che non lo consideri un fallimento, non significa che sia stato un successo».
      In  effetti,  dopo  avere  ricoperto  la  carica  di  superiore  generale  e  aver  partecipato  nel  1979  all’assemblea
    dell’episcopato latino-americano a Puebla, inizia per Jorge Mario Bergoglio una singolare traiettoria a ritroso.
      Dal 1980 al 1986 è rettore del Colegio Máximo de San Miguel a Buenos Aires, quindi si reca in Germania
    per lavorare alla sua tesi di dottorato, torna e ridiventa semplice docente di teologia nella capitale argentina
    finché nel 1990, di punto in bianco, i suoi superiori lo mandano a Córdoba come confessore dei gesuiti locali
    e  direttore  spirituale  della  parrocchia  annessa  alla  residenza  principale  della  Compagnia.  È  un  autentico
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    esilio . Bergoglio ha cinquantaquattro anni. Vive la stagione della «grande crisi interiore», a cui si riferisce
    nella confessione a padre Spadaro della «Civiltà Cattolica».
      La crisi prelude alla svolta. Nel 1992 il cardinale Antonio Quarracino lo chiama a Buenos Aires come suo
    vescovo ausiliare. Nel 1993 diventa vicario generale della diocesi, nel 1997 arcivescovo coadiutore con diritto
    di successione. Muore Quarracino e il 28 febbraio 1998 Bergoglio sale sulla cattedra arcivescovile della capitale
    argentina. Tre anni dopo Giovanni Paolo II lo crea cardinale.
      La guida della diocesi di Buenos Aires e poi la presidenza della conferenza episcopale argentina (dal 2005 al
    2011) rappresentano l’esperienza in cui apprende che governare non è dare ordini, ma ascoltare, costruire
    consenso, risolvere problemi lasciandosi il tempo di valutarli a fondo. Esercitare l’autorità, apprende, significa
    far crescere le persone intorno a sé e non agitare il bastone di comando. A Buenos Aires, da arcivescovo,
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