Page 69 - Francesco tra i lupi
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Un  piccolo  passo  in  mezzo  a  grandi  limiti  umani  –  avverte  –  può  essere  più  gradito  a  Dio  della  vita
    esteriormente corretta di chi non fronteggia mai serie difficoltà.
      Durissimo è il suo giudizio sull’integralismo. Già da arcivescovo ammoniva: «Non rendiamoci schiavi di una
    difesa quasi paranoica della nostra verità (se ce l’ho io, non ce l’ha lui; se può averla lui, non posso averla io). La
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    verità è un dono che ci sta largo... ci amplifica, ci eleva» . Meno che mai Francesco vuole una Chiesa che
    demonizza il presente in nome del passato. «Le lamentele di oggi su come va il mondo “barbaro” finiscono a
    volte  per  far  nascere  dentro  la  Chiesa  desideri  di  ordine,  inteso  come  pura  conservazione...  No:  Dio  va
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    incontrato nell’oggi» .
      Pressante  è  la  sua  esortazione  a  una  riconversione  della  gerarchia.  I  vescovi  devono  condurre,  non
    spadroneggiare. Essere vicini alla gente, da padri e fratelli, pazienti e misericordiosi. Avere uno stile di povertà
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    interiore ed esteriore, rifuggendo dalle ambizioni e praticando una vita semplice ed austera . Al posto del
    vescovo che comanda, Francesco indica la figura di un pastore che sa stare sia davanti al gregge per indicare il
    cammino sia nel mezzo per mantenerlo unito, sia dietro per evitare che nessuno rimanga indietro, ma anche
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    «fondamentalmente perché il gregge stesso ha il proprio fiuto per trovare nuove strade» . L’immagine di un
    vescovo che impara dal fiuto dei fedeli è inedita. Per di più sulla bocca di un pontefice.
      La Chiesa a cui pensa Francesco non è ossessionata dalla trasmissione scoordinata di una serie di dottrine,
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    che si cerca di «imporre a forza di insistere» . Al contrario, è pronta a correre il rischio di confrontarsi con
    l’uomo  contemporaneo,  così  com’è,  per  rispondere  alla  sua  sete  di  Dio.  Questa  Chiesa  ha  bisogno  di
    riformarsi nelle sue strutture. Francesco indica obiettivi precisi, che investono tutta la piramide ecclesiale: il
    pontefice, la curia, i sinodi, le conferenze episcopali, gli organi consultivi delle diocesi, il ruolo dei fedeli e le
    responsabilità da affidare alle donne.
      In cima alla lista, la riforma del papato. Francesco lo vuole più fedele al significato che «Gesù Cristo intese
    dargli» e più adeguato alle necessità attuali dell’evangelizzazione. Francesco la chiama «conversione del papato».
    Il  giurista  uruguayano  Guzmán  Carriquiry,  segretario  della  pontificia  commissione  per  l’America  latina,
    riassume  il  rimodellamento  del  papato  con  un’immagine  felice:  «Bergoglio  è  successore  di  Pietro  non  di
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    Costantino» .
      Un’eccessiva centralizzazione, sottolinea papa Francesco, non aiuta la Chiesa, anzi complica la sua esistenza
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    e il suo dinamismo missionario . E qui il pontefice argentino recupera due documenti importanti, caduti nel
    dimenticatoio durante il pontificato di Benedetto XVI. In primo luogo l’enciclica Ut Unum sint di Giovanni
    Paolo II, che si proponeva la ricerca di un nuovo modello (più partecipato) del primato papale in vista di una
    riunificazione ecumenica. Modello da elaborare in consultazione con i capi delle altre Chiese cristiane. L’altro
    documento  da  valorizzare  è  il  testo  redatto  a  Ravenna  nel  2007  da  una  commissione  mista  ortodosso-
    cattolica, con la partecipazione del cardinale Walter Kasper e del metropolita Joannis Zizioulas del patriarcato
    ecumenico di Costantinopoli. Un documento in cui da parte ortodossa si riconosce per la prima volta nero su
    bianco  il  vescovo  di  Roma  come  «primo  dei  patriarchi»  e  la  sede  romana  come  Chiesa  che  «presiede
    nell’amore» (la stessa formula usata da Francesco nel discorso alla folla la sera dell’elezione). Al tempo stesso il
    documento sottolinea la necessità che il ruolo del romano pontefice si esplichi nell’ambito di un’autentica
    collaborazione  con  i  vescovi  della  cristianità:  in  «accordo»  con  loro.  È  quello  che  gli  ortodossi  chiamano
    sinodalità. Francesco si riallaccia esplicitamente all’esperienza ortodossa, dove un patriarca pur essendo capo
    di una Chiesa non può governarla senza il parere del suo consiglio, il sinodo. «Dagli ortodossi – dice – si può
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    imparare di più sul senso della collegialità episcopale e sulla tradizione della sinodalità» .
      La seconda istanza sottoposta a riforma è la curia romana. Non solo nel senso di un disboscamento dei suoi
    organismi  e  del  recupero  di  una  maggiore  efficienza.  A  Buenos  Aires,  uno  dei  suoi  collaboratori  quando
    Bergoglio era arcivescovo ricorda che da molto tempo diversi episcopati chiedevano una riduzione del «potere
    poliziesco» della curia. È noto che in epoche differenti gli episcopati di Stati Uniti, Francia, Germania e di
    alcuni paesi latino-americani (durante la stagione della teologia della liberazione) hanno sofferto per i controlli
    o  le  pressioni  del  Vaticano.  Da  secoli  la  curia  romana,  proponendosi  quale  strumento  al  servizio  della
    monarchia papale, agisce e si concepisce come una sorta di comando generale della Chiesa.
      Nell’esortazione  apostolica  Evangelii  Gaudium  Francesco  si  limita  a  dire  che  le  «strutture  centrali  della
    Chiesa universale hanno bisogno di ascoltare l’appello ad una conversione pastorale». Nella conversazione con
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