Page 63 - Francesco tra i lupi
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X. L’autocritica di un papa
Le sconfitte formano i leader o li scartano per sempre. Papa Francesco, intervistato dal confratello gesuita
Antonio Spadaro per la rivista «La Civiltà Cattolica», si apre ad una confessione sorprendente. «Il mio governo
come gesuita all’inizio aveva molti difetti. Quello era un tempo difficile per la Compagnia: era scomparsa una
intera generazione di gesuiti. Per questo mi son trovato Provinciale ancora molto giovane. Avevo 36 anni: una
pazzia. Bisognava affrontare situazioni difficili...».
Bergoglio diventa capo dei gesuiti di Argentina e Paraguay nel 1973 (fino al 1979). Tre anni dopo un colpo
di stato porta al potere la giunta militare capeggiata dal generale Jorge Rafael Videla, che instaura un regime
repressivo particolarmente feroce contro la guerriglia di estrazione peronista e marxista. Il bilancio della
dittatura, che finisce solo nel 1983, sarà di trentamila assassinati, torturati o scomparsi: i desaparecidos.
È la stagione in cui molti gesuiti parteggiano per il riformismo post-conciliare, un forte impegno sociale e la
teologia della liberazione. «Io prendevo le mie decisioni – racconta papa Bergoglio – in maniera brusca e
personalista... alla fine la gente si stanca dell’autoritarismo. Il mio modo autoritario e rapido di prendere
decisioni mi ha portato ad avere seri problemi e ad essere accusato di essere ultraconservatore». Spadaro
prende nota. Mai un pontefice moderno ha parlato con tale brutale franchezza dei propri errori e della propria
inadeguatezza in un posto di comando. Davanti al registratore il papa prosegue: «Ho vissuto un tempo di
grande crisi interiore quando ero a Cordova. Ecco, no, non sono stato certo come la Beata Imelda [cioè uno
stinco di santo], ma non sono mai stato di destra. È stato il mio modo autoritario di prendere le decisioni a
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creare problemi» .
L’accenno del papa tocca un nervo scoperto del suo passato, il ruolo svolto durante la dittatura. Le polemiche
erano già scoppiate quando era arcivescovo, sono riesplose dopo la sua elezione. Da tempo in Argentina il
giornalista Horacio Verbitsky sosteneva che il superiore provinciale avesse lasciato alla mercè dei militari, e
praticamente consegnato a loro, due confratelli gesuiti – Orlando Yorio e Francisco Jalics – sequestrati il 23
maggio 1976 e torturati nella famigerata Esma (Escuela de mecánica de la Armada), dove restarono
imprigionati per oltre cinque mesi.
Dopo il ritorno dell’Argentina alla democrazia e l’avvio di indagini sui diritti umani violati dai golpisti,
Bergoglio venne interrogato due volte in tribunale come persona informata dei fatti e mai fu ritenuto
colpevole di nulla. «Ci furono vescovi complici della dittatura, ma Bergoglio no», ha dichiarato il premio
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Nobel per la pace Adolfo Pérez Esquivel, in un’intervista alla Bbc . Alicia Oliveira, esponente di spicco del
movimento per i diritti umani, prima donna giudice penale dell’Argentina, poi cacciata dalla giunta militare,
fu testimone delle iniziative di Bergoglio a favore dei perseguitati. Lei stessa, entrata in clandestinità, venne
trasportata da Bergoglio nel bagagliaio della sua automobile per poter incontrare i figli tra le mura del collegio
gesuita San Miguel.
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È acclarato che Bergoglio agì in varie occasioni per salvare uomini e donne nel mirino del regime militare .
La vicenda dei due gesuiti, però, è più intricata. Yorio e Jalics, professore di teologia di Bergoglio il primo, suo
direttore spirituale il secondo, avevano creato una comunità nel quartiere di Rivadavia nel Bajo Flores,
accanto a una delle più popolose borgate di baracche della capitale argentina: Villa 1-11-14. I due erano
socialmente molto impegnati, vicini alla teologia della liberazione, e un loro collaboratore, poi rapito e
torturato, faceva parte della guerriglia. Bergoglio, come superiore dei gesuiti, intimò loro di lasciare l’attività
nella bidonville. Yorio e Jalics rifiutarono e successivamente furono sequestrati dalle forze militari. È agli atti
che Bergoglio si mobilitò per farli liberare, incontrando gli esponenti più alti della dittatura: l’ammiraglio
Emilio Massera e il generale Jorge Rafael Videla. Una volta liberati, li aiutò ad espatriare. Padre Yorio si recò a
Roma, mentre Jalics andò prima in Ungheria, sua terra d’origine, e poi in Germania.