Page 10 - Il grande dizionario della metamedicina
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Quando non sappiamo di cosa soffriamo, il medico può aiutarci a dare un nome al nostro male. È quella che si
chiama diagnosi. Inoltre, il medico può prescrivere la medicina adatta per alleviare il dolore e, quando è necessario,
può accompagnarci nel nostro cammino per recuperare la salute.
I farmaci hanno lo scopo di alleviare il dolore, ma non possono sopprimere i fattori di turbamento che creano i nostri
mali. I rimedi naturali, dal canto loro, hanno il vantaggio di avere più raramente effetti secondari.
Quel che conta è la ricerca della causa (fisica o psicosomatica). Lo stesso Ippocrate diceva: «Se sei malato, scopri
innanzitutto che cosa hai fatto per diventarlo!»
Una volta identificata la causa, potremo ringraziare la parte del corpo o l’organo colpito e dirgli che abbiamo
capito, che ce ne occuperemo.
La soluzione risiede spesso nella causa. Se si tratta di paura si cercherà il modo di liberarsene; se si tratta di
collera si cercherà ciò che quella situazione vuole insegnarci per lasciare andare quel sentimento e così via.
Ricordiamo però che il nostro corpo può avere bisogno di aiuto per riparare le parti colpite. Questo aiuto può essere
il riposo, a volte i rimedi naturali o in certi casi anche i farmaci.
Seguire la strada dell’autoguarigione non significa dunque non avere più bisogno di medici né di cure. Significa,
piuttosto, partecipare alla propria guarigione invece di aspettare che il farmaco o il medico ci guariscano. Se non
siamo noi a capire ciò che il nostro sintomo tenta di dirci, esso rischierà di intensificarsi.
Mi auguro che questo libro possa essere una guida lungo il cammino della vostra evoluzione e vi permetta di
preservare al meglio il vostro «capitale salute».
La vostra amica, sorella e guida
Claudia
Ai miei amici infermieri, alle mie amiche infermiere
Credo che stessi aspettando da tempo l’occasione per restituire ai professionisti della salute, in particolar modo alle
infermiere, quello che una di loro mi ha dato un giorno. Il fatto risale a ventisette anni fa. A quell’epoca nel mio
ambiente ero considerata una persona di grande successo. Avevo una bella professione, una bella casa, un bravo
marito, due bei figli sani, insomma, avevo tutto per essere felice. Eppure sentivo un grande vuoto dentro di me, mi
sentivo orribilmente sola, in una condizione di malessere indefinibile, mentre le persone che mi erano vicine
dicevano: «A Claudia i problemi scivolano addosso come acqua sulle penne di un’anatra». Quello che ignoravano,
era che quell’anatra zoppa che io ritenevo di essere stava per affogare, ma non sapeva come dire: «Ho bisogno di
aiuto!» Avevo adottato, al contrario, la seguente filosofia: «Quando gli altri hanno bisogno di te aiutali, ma quando
sei tu ad aver bisogno di aiuto non seccarli con i tuoi problemi!»
Poi, un giorno, una goccia ha fatto traboccare il vaso delle mie «depressioni» inducendomi a concludere che la vita
non era altro che sofferenza e che i miei figli avrebbero avuto maggiori possibilità di essere felici con una madre più
equilibrata. La vita non aveva più interesse per me e volli porvi fine. Mio marito, vedendomi inerte al suo risveglio,
si allarmò e chiamò i soccorsi. Mentre mi trasportavano all’ambulanza ebbi la netta sensazione di essere al di sopra
del mio corpo. Al pronto soccorso, la mia coscienza osservava con totale indifferenza l’accanimento del personale
infermieristico su di me. A un certo punto sentii il medico rivolgersi a mio marito dicendo: «Ormai le restano poche
ore di vita».
Eppure io sapevo di poter scegliere se fare ritorno nel mio corpo oppure lasciarlo. Ero in una sorta di nulla in cui
non esistevano più né spazio né tempo. Rimasi in quello stato di letargia, collegata a un respiratore, per gran parte
della giornata. Mi avevano sistemata in un angolo in attesa che esalassi l’ultimo respiro.
Nell’ospedale c’era così tanto da fare che finirono per dimenticarsi di me. Fu un’infermiera che aveva appena
iniziato il suo turno di sedici ore a trovarmi. Guardandomi con compassione, mi disse: «Oddio, povera micina!»
Quelle parole mi penetrarono nell’anima. Mi fecero uscire dallo stato di indifferenza in cui mi ero rifugiata. Non
potevo più rimanere insensibile davanti a tanta compassione. Allora pensai: «Se sulla Terra esiste una sola persona
capace di amare come questa donna, vale la pena fare lo sforzo di tornare». E attraverso questo pensiero ho ripreso
possesso del mio corpo. Al pronto soccorso ci fu il panico: la morta aveva aperto gli occhi.
Il personale dell’ospedale mi aveva prodigato mille cure per rianimarmi, e a lei erano bastate poche parole piene di
compassione. Non so chi sia quell’infermiera. Probabilmente lei ignora qual è stata la portata delle sue parole: non
solo mi hanno ridato il gusto di vivere, ma hanno avuto una ripercussione sulle migliaia e migliaia di persone di tutto
il mondo alle quali il mio lavoro ha permesso di autoguarirsi e/o di trasformare la vita.
Da allora, ogni volta che in uno dei miei seminari era presente un’infermiera pensavo a lei; quando ringraziavo le
infermiere nelle mie conferenze è a lei che rivolgevo la mia gratitudine.
Questo libro, che mi è stato ispirato da Mauricia, è dunque per me un modo di ringraziarla aiutando a mia volta i
medici, le infermiere, i terapeuti, gli psicologi, gli psicoterapeuti…
La vostra amica, sorella e compagna