Page 7 - Il grande dizionario della metamedicina
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Sono molteplici le situazioni che mi hanno motivato a scrivere questo libro, ma ce n’è una che mi ha ispirato in
     modo particolare.
     Ero  stata  invitata  a  tenere  una  conferenza  sulla  relazione  d’aiuto  in  un  ospedale.  La  direttrice,  molto  aperta  nei
     confronti del mio lavoro, mi aveva proposto di formare alcuni membri del suo staff mettendomi a disposizione, in
     cambio, una sala per il nostro gruppetto. Fu così che conobbi Mauricia. Dopo aver seguito i miei primi seminari di
     formazione,  lei  sentì  parlare  di  una  paziente  difficile  di  cui  nessuno  voleva  più  occuparsi  a  causa  dei  suoi
     atteggiamenti sgradevoli nei confronti del personale infermieristico. Allora Mauricia pensò: «Forse è arrivato il
     momento di mettere in pratica quello che ho imparato da Claudia»; e si offrì volontaria per occuparsi della paziente.
     Un giorno, mentre le prodigava le cure necessarie, le chiese: «Perché crede che le sia venuto il cancro?» Poi le
     lasciò il tempo di riflettere.
     L’indomani, quando tornò dalla paziente, questa le disse: «So perché mi è venuto il cancro».
     «Ah, sì?» disse Mauricia con fare interessato.
     «Vede, ho passato la vita a occuparmi di tutti, ma non c’è mai stato qualcuno che si sia occupato di me… Avevo
     bisogno di questo cancro perché si occupassero di me.»
     «Perché non si è mai occupata di sé?»
     Mauricia la lasciò di nuovo riflettere sulla domanda. La paziente si aprì a lei ogni giorno di più.
     Dopodiché la donna lasciò l’ospedale. Alcuni mesi più tardi, tornata per una visita di controllo, cercò Mauricia e le
     disse: «Lei mi ha fatto una domanda che ha cambiato tutta la mia vita! Da allora ho imparato a occuparmi di me
     stessa e sto molto meglio. Ora sono sulla strada della guarigione. Volevo ringraziarla».
     Rimasi molto colpita quando Mauricia mi raccontò questa storia. Pensai ai medici e alle infermiere che dispongono
     di così poco tempo per ascoltare i loro pazienti. Mi venne da pensare: «Se potessi fornire ai medici, alle infermiere
     e ai terapeuti una domanda precisa, una domanda che potrebbero porre ai pazienti per aiutarli a prendere coscienza
     della causa delle loro sofferenze, questo potrebbe essere qualcosa in più, un’aggiunta alle cure da loro prodigate,
     inoltre creerebbe una partecipazione del paziente alla propria guarigione».
     Ho iniziato a scrivere questo libro cinque anni fa. Ogni volta che pensavo di avvicinarmi alla fine facevo delle
     scoperte interessantissime che mi inducevano a rimandarne la pubblicazione. Ero arrivata al punto di chiamarlo «Il
     libro senza fine». Ma come un frutto ormai maturo si stacca dal ramo, è giunto il momento che il libro diffonda i
     frutti dell’albero della Metamedicina.

     Come opera la Metamedicina?
     Benché questo volume tratti delle cause dei malesseri e delle malattie, non bisogna pensare che la Metamedicina si
     limiti a una mera decodifica del linguaggio attraverso cui questi si esprimono.
     Alcuni definiscono la Metamedicina come una filosofia di vita che può trasformare l’esistenza, altri la presentano
     come una medicina psicosomatica, altri ancora come la medicina delle emozioni o come una medicina dell’anima.
     Tutti concordano però nel dire che è, innanzitutto, una medicina di risveglio della coscienza; essa permette infatti
     alla persona che intraprende questo percorso di padroneggiare meglio la propria vita.
     Gli  operatori  di  Metamedicina  non  fanno  diagnosi  e  non  offrono  trattamenti.  Utilizzano  una  serie  di  domande
     pertinenti per indurre la persona a prendere coscienza della causa della sua sofferenza, per aiutarla a trovare una
     soluzione a ciò che la disturba e a guidarla, attraverso un processo terapeutico, a sbloccare la sua carica emozionale;
     il tutto incoraggiandola a intraprendere un’azione liberatoria.
     Ecco un esempio: una partecipante a un mio seminario mi fece delle domande riguardo a emicranie ricorrenti di cui
     soffriva. Le chiesi quando erano cominciate. Lei rispose che non era in grado di dirlo con precisione, ma che la cosa
     risaliva ormai a diversi anni addietro.
     «Le emicranie si manifestano in momenti particolari?»
     «Sì, le ho quasi sempre nei primi giorni del periodo mestruale.»
     A quel punto le chiesi: «Essere donna, per te, equivale a pericolo?»
     Lei si mise a piangere. La mia domanda aveva risvegliato in lei una sofferenza.
     Su  cosa  si  era  basata  la  mia  domanda?  Sul  fatto  che  i  mal  di  testa  sono  molto  spesso  legati  alla  paura  di  non
     mantenere  il  controllo  di  una  situazione.  Quando  evolvono  in  emicranie,  significa  che  la  paura  può  essere
     intensificata  da  un  pericolo  potenziale  o  da  una  minaccia.  Ho  tenuto  conto  del  momento  in  cui  le  emicranie
     sorgevano, vale a dire nel periodo del mestruo. Quel momento non le ricordava forse che lei era una donna?
     La sua emozione mi dimostrò che la domanda aveva colto nel segno. La donna mi confermò che aveva effettivamente
     subito degli abusi. Le chiesi allora se voleva parlarmene. Per aiutarla a liberare le emozioni legate a quei fatti la
     invitai a rimettersi in quella situazione facendo ricorso a immagini mentali.
     La incoraggiai poi a esprimere a quell’uomo (che viveva nei suoi ricordi) tutto quello che gli abusi le avevano fatto
     vivere, in modo da potersi liberare della sofferenza che da anni si teneva dentro. Dopodiché le suggerii di ascoltare
     ciò che quell’uomo voleva dirle. Infine l’aiutai a trasformare l’equazione che manteneva viva in lei la sensazione
     secondo cui essere donna equivaleva a pericolo di subire abusi.
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