Page 90 - Prodotto interno mafia
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una turbativa sistematica delle gare pubbliche e una
compressione totale della concorrenza. Contemporaneamente la
presenza mafiosa continuava a manifestarsi nella forma
tradizionale di intermediazione parassitaria attraverso il pizzo:
una «tassa» applicata su tutto, dalle grandi opere pubbliche alle
piccole attività private, il famigerato 3 per cento pagato anche
dall’imprenditore mafioso per alimentare le casse
dell’organizzazione
La mafia appare, nelle sue parole, la forma di governo che ha
retto la Sicilia dal dopoguerra in poi. Se cosí fosse, la
responsabilità sarebbe anche della società siciliana nel suo
complesso e delle classi dirigenti dell’isola.
Certamente. La responsabilità del dominio sociale ed
economico di Cosa nostra è anche di una parte di borghesia
meridionale, che ha sempre concepito l’imprenditoria come
un’attività di rapina, sfruttamento di risorse, lavoro «sporco». Il
concetto di mercato è stato travisato in Italia fin dalle origini: le
due grandi culture politiche – cattolica e comunista – che hanno
plasmato il paese dal secondo dopoguerra in poi, guardavano
entrambe con diffidenza al mercato, descrivendolo non come
l’arena delle opportunità di matrice anglosassone dove vince il
piú bravo, ma come il luogo del «tutti contro tutti», dove il piú
debole soccombe.
In Italia esiste un rapporto irrisolto tra società, mondo
economico e regole. Il capitalismo, fin dalla sua genesi, ha avuto
bisogno di mercati efficienti per svilupparsi. Quando le regole
sono venute meno, e pensiamo alla recente crisi economico-
finanziaria, il sistema è stato travolto. Liberismo regolato e Cosa
nostra non possono stare insieme, perché la mafia convive con la
distorsione della concorrenza, i mercati protetti, la dimensione
ipertrofica dell’apparato pubblico. La cultura antimercato ha
rafforzato l’urbanizzazione selvaggia e la cattiva gestione della
spesa pubblica, favorendo uno sviluppo del capitalismo che ha
finito per aumentare le disuguaglianze del paese, favorire le
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