Page 79 - Potere criminale
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L. Non è una novità. Simile discorso faceva Nick Gentile nel suo libro di memorie curato con
Felice Chilanti agli inizi degli anni Sessanta. Simile discorso fa Joe Bonanno nel suo libro di inizio
anni Ottanta. Buscetta racconta la mafia nel suo complesso come se scrivesse un libro, e vi colloca i
personaggi: Salvatore Greco Cicchiteddu, capo abilissimo e suo grande amico; Stefano Bontate,
altro mafioso di rango ma purtroppo un po’ troppo fine, destinato alla sconfitta; Salvatore Inzerillo,
ragazzotto presuntuoso; Totò Riina, il più cattivo tra i cattivi, negazione vivente del modello
dell’antico mafioso.
S. Buscetta però un libro lo scrive veramente, con Pino Arlacchi. Nell’introduzione al testo di «Addio Cosa
Nostra», il sociologo calabrese ammette a distanza di molti anni di avere sbagliato quando affermava che la mafia
non aveva una struttura piramidale.
L. Nessuno saprà mai che cosa in questo libro sia attribuibile al sociologo e cosa propriamente al
pentito. Siamo al solito disprezzo per la filologia, al disinteresse per la critica delle fonti, che affligge
la mafiologia. La contraddizione tra la teoria di Arlacchi e le rivelazioni di Buscetta è in effetti
clamorosa. Ma non basta dire: avevo sbagliato. Prendiamo comunque atto che da allora Arlacchi ha
rinunciato a scrivere testi di tipo, diciamo così, scientifico sul tema.
S. La ricostruzione di Buscetta rischia di farci cadere nell’idolatria della Cupola mafiosa: tutto dentro la Cupola,
nulla fuori dalle decisioni della Cupola. Non siamo di fronte all’eccesso di verticalizzazione?
L. C’è una forzatura, che però non è tutta riconducibile alla testimonianza di Buscetta. Quando
Buscetta spiega il funzionamento del narcotraffico o del contrabbando, dice comunque
esplicitamente che ad agire sul mercato sono i singoli mafiosi, non le famiglie e tanto meno la
Cupola. I mafiosi hanno una sorta di diritto di prelazione: possono, se vogliono, partecipare al
traffico con una propria quota, con propri soldi e a proprio rischio.
S. Non esiste dunque la cassaforte della mafia, ma il denaro di ciascun mafioso. Non esiste pertanto nemmeno il
cassiere della mafia, così come era stato ribattezzato Pippo Calò...
L. Di Calò Buscetta dice: «Se era cassiere, lo era della sua cassa». Queste sue precisazioni non sono
state recepite, perché sono state come schiacciate dalla descrizione di una struttura compattissima,
armata di regole inviolabili, fatta da Buscetta con uno stile che potrei dire quasi di formalismo
giuridico. Però il suo racconto di singole transazioni, dei rapporti tra persone, affari e interessi,
contraddice di continuo quest’immagine piramidale.
S. Basta citare la regola pomposamente enunciata che ciascun uomo d’onore deve dire la verità, mentre le cronache
sono fitte di bugie, tradimenti e inganni.
L. Lo stesso Buscetta mostra che non è vero che i mafiosi dicano sempre la verità. Anzi, potrebbe
dirsi, dimostra suo malgrado che nessuno mai dice la verità.
S. Il formalismo di Buscetta, come lo definisci tu, dà corpo alla definizione di Antistato: la mafia ha popolo,
territorio e sovranità. Esattamente come lo Stato.
L. La mafia, replicherebbe Romano, è un ordinamento giuridico minore. Però aspira a essere
maggiore, cioè statale, ed è così che si racconta al suo popolo; ed è così che ce la racconta Buscetta.
Qualcuno ha scritto: la mafia pretende di portare l’ordine, la mafia è disordine, quindi la mafia non
esiste. È come se dicessimo: siccome ci sono i colpi di Stato, lo Stato non esiste. La mafia è una
velleità di Stato, è una caricatura di Stato.
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