Page 73 - Potere criminale
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I professionisti dell’antimafia














           Gaetano Savatteri Nel clima arroventato di una Sicilia e di un’Italia intera scosse dagli omicidi eclatanti e dalla
           nascente strutturazione della nuova antimafia, stona la voce dissonante di Leonardo Sciascia. Su «L’Espresso» del
           20 febbraio 1983, appena sei mesi dopo il delitto, chiamato in causa da un intervento di Nando Dalla Chiesa, il
          figlio  del  generale  ucciso,  Sciascia  scrive  che  il  prefetto  di  Palermo  non  aveva  capito  «la  mafia  nella  sua

           trasformazione in ‘multinazionale del crimine’, in un certo senso omologabile al terrorismo e senza più regole di
           convivenza e connivenza col potere statale e col costume, la tradizione e il modo di essere dei siciliani». Un articolo
          duro fin dal titolo: «Anche i generali sbagliano». E destinato ad aprire una furiosa polemica.

           Salvatore Lupo La storia non è fatta di conflitti tra moralità e immoralità, tra bene e male. Semmai,
          esistono scontri di interessi e di idee. Sciascia lo sapeva e lo diceva. Si mostrava un vero epigono
           della più grande tradizione culturale siciliana dei Verga, dei De Roberto, dei Pirandello, dei Mosca,
           quando  si  mostrava  sospettoso  verso  chi  si  riempie  la  bocca  di  «questioni  morali».  Ripartiva  da

           quello che era un punto fermo tradizionale per la cultura di sinistra: la repressione statale finisce per
           colpire  solo  i  deboli  e  gli  oppositori,  l’idea  del  reato  collettivo  nasconde  intenti  liberticidi.  Sulla
           linea di uno slogan molto diffuso a sinistra negli anni precedenti, non voleva che la repressione della
          mafia seguisse il metodo del prefetto Mori: accuse pretestuose di associazione a delinquere, confino
           di polizia, condanne di innocenti o anche colpevoli con false prove. Il generale Dalla Chiesa arrivò a

           Palermo  con  poteri  eccezionali  (veri  o  presunti  che  fossero),  forte  dei  suoi  successi  contro  i
           terroristi, ma tra mille polemiche riguardanti appunto i suoi metodi. A Sciascia sembrò di vivere un
           déjà vu. Anche il clima politico gli ricordava il fascismo. Si era appena allontanato dal Pci criticando
           aspramente  l’ipotesi  del  compromesso  storico,  che  considerava  come  l’anticamera  di  un  nuovo
          regime:  al  pari,  d’altronde,  di  tanti  altri  intellettuali  collocati  in  una  vasta  area  nella  quale  si
          affollavano  conservatori  di  ogni  genere,  socialdemocratici,  socialisti  craxiani  e  non,  radicali,
          extraparlamentari di sinistra.


          S. Lo scontro tra Sciascia e il Pci risaliva ad alcuni anni prima, già al tempo dei primi processi alle Brigate Rosse.
           La sua posizione venne riassunta nello slogan: né con lo Stato né con le Br. E dal Pci fu fortemente criticata...

           L.  I  cittadini  nominati  al  ruolo  di  giurato  al  processo  di  Torino  alle  Brigate  Rosse  non  avevano
          voluto assumere l’incarico, e Sciascia aveva sostenuto che non li si poteva criticare, perché non era
           giusto difendere quello Stato. Giorgio Amendola replicò duramente. Non si doveva cedere, disse, e
           non era ammissibile «l’apologia della viltà».

           S. Torniamo a Dalla Chiesa. Nemmeno la sua tragica morte pose fine alle polemiche.


           L. Già. Sciascia tenne la sua posizione anche dopo l’omicidio, con un amor di coerenza che non
           dava  spazio  alla  pietas  che  in  genere  fa  seguito  a  tragedie  di  quel  tipo.  A  quel  punto  il  figlio  del
          generale, Nando Dalla Chiesa (un sociologo con un passato di estrema sinistra), gli diede in sostanza
           del colluso. Sciascia non ebbe ritegno a insultarlo sul cadavere ancora caldo del padre. La polemica fu
           pesante  e  sconveniente  da  entrambe  le  parti.  Ognuno  evidentemente  pensava  di  avere  «tutte»  le



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