Page 71 - Potere criminale
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S.  C’erano  diverse  anime  nel  Pci  siciliano:  il  partito  da  una  parte  proclamava  la  sua  tradizionale  posizione
           antimafia, mentre nello stesso tempo le cooperative rosse facevano parte dei consorzi d’impresa con aziende in odore
           di mafia nella realizzazione di grandi opere pubbliche. La contraddizione deflagrò violentemente a metà degli anni
           Ottanta.

           L.  Senza  che  per  questo  si  trovasse  una  strada.  Prendi  ancora  Catania,  dove  il  gruppo  dirigente
           impegnato nella collaborazione con uno dei Cavalieri, Mario Rendo, cade di fronte all’evidenza dei

           suoi  errori,  ma  il  gruppo  radicaleggiante  che  l’ha  contrastato  non  si  mostra  in  grado  di  gestire  il
           partito.  La  storia  si  conclude  con  l’arrivo  di  un  commissario  «continentale».  Risultato?
           Un’inarrestabile  decadenza  politica  ed  elettorale.  Prendi  i  funerali  di  Pio  La  Torre,  quando  i
           dirigenti  fanno  intervenire  il  presidente  democristiano  della  Regione  Mario  D’Acquisto,
          andreottiano molto discusso, beccandosi (loro e lui) i fischi della folla.

          S. I contrasti più accesi però esplodono dentro la Dc e i partiti di governo, riducendo i margini di convivenza.

          L’antimafia finisce per diventare una discriminante interna alle forze di maggioranza: nella Dc palermitana e
           siciliana, e in tutto il mondo politico, fecero scalpore le parole di Leoluca Orlando in risposta all’ipotesi di una sua
           candidatura al Parlamento europeo nel 1989. Il sindaco di Palermo replicò: «O me o Lima». Contrapposizioni
           così radicali e pubbliche non si erano mai viste dentro un partito avvezzo alle sfumature e alla mediazione...

           L. La stessa cosa accade a Catania con Enzo Bianco, un ex repubblicano che ritrova un’opinione
           pubblica, un modo di presentarsi, un gruppo di forze a cui collegarsi. Ribadisco però che questa

          dialettica, lo spappolarsi del fronte di governo, si traduce contemporaneamente – e paradossalmente
          – in una decadenza del Pci.

          S. Proprio mentre il discorso dell’antimafia diventa elettoralmente redditizio...

          L. Già. L’antimafia vera o presunta, fatta o proclamata, comincia a diventare pagante. Ma nessuno
           dei partiti è attrezzato per inoltrarsi su questa strada. Le fortune di Orlando passano dalla costruzione
          della Rete, un «antipartito» che anticipa di poco la svolta del 1993. Si verifica un fenomeno senza
           precedenti: non solo si chiede alla società civile di sostenere lo Stato, ma segmenti di istituzioni a

           lungo considerati come la faccia più cattiva dello Stato «separato» – polizia, carabinieri e magistratura
           penale – si trasformano in campioni della società civile. Il paragone con gli Stati Uniti stavolta non
           vale,  perché  in  America  quelle  istituzioni  sono  elettive.  Siamo  davanti  a  un  corto  circuito
           concettuale decisamente originale.

           S. Possiamo dire che in questi anni a Palermo si struttura il concetto del «partito dei giudici»?

           L. Sì, è così. C’erano dei precedenti, come i pretori d’assalto degli anni Settanta. Ma a Palermo,

           attraverso l’impegno di alcuni e (purtroppo) il martirio di altri, l’idea del partito dei giudici prende
           forma. Nasce dalla sorpresa che, in un’Italia senza senso della patria e dello Stato, ci siano funzionari
          disposti a morire per il loro dovere, per questa  patria  e  per  questo  Stato.  A  ogni  funerale,  a  ogni
           commemorazione prende forma l’idea di per sé contraddittoria dei magistrati come rivoluzionari, in
           quanto  portatori  di  legalità.  L’immagine  abbozzata  a  Palermo  avrà  presto  il  suo  corrispettivo
           milanese con Tangentopoli: Giovanni Falcone e Antonio Di Pietro ne divengono i simboli.


           S. Un’istanza di legalità che segna pure il mondo cattolico, per certi versi perfino il clero, se ricordiamo l’omelia
           dell’arcivescovo di Palermo Salvatore Pappalardo alle esequie di Carlo Alberto Dalla Chiesa, sua moglie e il loro
           autista: «Mentre Sagunto viene espugnata, a Roma si discute...». Un atto d’accusa nei confronti della politica
           dello Stato che appare inerme di fronte ai massacri di Palermo.



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