Page 56 - Potere criminale
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L. Non ne sappiamo abbastanza e troppo ci fidiamo della ricostruzione della memoria successiva dei
comunisti piuttosto che di un’analisi delle fonti coeve. Posso solo dire che il discorso etico-politico
sulla e contro la mafia non è proprio del realismo iperpolitico del filone principale della cultura
comunista.
S. Lo storico Francesco Renda, in passato dirigente comunista, sostiene che l’unica antimafia reale e collettiva sia
stata quella dell’occupazione delle terre. Possiamo parlare di un’antimafia di popolo legata da un filo rosso, che
parte dai Fasci siciliani di fine Ottocento e arriva fino alla battaglia contro il latifondo degli anni Cinquanta?
L. La lotta per l’occupazione delle terre è una grande vicenda di mobilitazione popolare e
democratica che riprende un filo antico, che è in effetti quello dei Fasci e delle battaglie contadine
del primo dopoguerra. È dubbio però che tutta questa vicenda possa essere letta in un unico
sviluppo di continuità. E non tutto in essa parla il linguaggio definibile come antimafioso. Il mondo
politico socialriformista di inizio Novecento, direttamente derivante dai Fasci, era fatto di interessi e
clientele locali, con cui i gruppi mafiosi riuscivano spesso a dialogare. Sia in quel periodo che nel
primo dopoguerra, molteplici erano state le infiltrazioni di gruppi mafiosi nel movimento
contadino. Gente come Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo avevano comprato o ottenuto
pezzi di latifondo, avevano fondato cooperative, avevano ridistribuito appezzamenti, ne avevano
ricavato ricchezza, consenso, potere. Da questo punto di vista, era complicato utilizzare la memoria
di queste stagioni ai fini della produzione di democrazia e di lotte antimafia. D’altronde anche nel
secondo dopoguerra i gruppi mafiosi si sono inseriti nella distribuzione di ricchezza,
posizionandosi nei consorzi di bonifica, gestendo gli istituti di riforma agraria o controllando le
cooperative.
S. Stai dicendo che la mafia, durante le lotte contadine per l’occupazione delle terre incolte, non si è schierata a
difesa del latifondo?
L. Spesso sì, altre volte no. Di fronte alla crisi del latifondo, la mafia sfrutta i canali di mobilità
sociale. Tieni conto che dopo il ’45 i partiti di sinistra, organizzati su scala nazionale e su un
modello accentrato, si sono fatti meno permeabili di quanto fossero in età liberale. La mafia teme la
concorrenza dei movimenti contadini da essi organizzati e si propone spesso come concorrente nel
controllo delle nuove risorse ora disponibili.
S. Anche per questa ragione Luciano Leggio, campiere del feudo Strasatto di Corleone, uccide Placido Rizzotto.
L. Perché Rizzotto, come altri sindacalisti e politici social-comunisti assassinati dalla mafia,
disturbava la gestione «controllata» degli affitti dei feudi.
S. Torniamo all’epilogo della vicenda di Salvatore Giuliano. È il 5 luglio 1950, il cadavere del bandito è riverso a
terra in un cortile di Castelvetrano, attorno al quale si schierano magistrati e carabinieri per concedersi ai flash dei
fotografi. La messinscena del suo omicidio a tradimento – svelata per primo dal giornalista Tommaso Besozzi, che
dopo avere visto il cadavere del bandito, scrisse: «Di sicuro c’è solo che è morto» – viene considerata simbolica
dell’intesa tra mafia, forze di polizia, politica e forse servizi segreti stranieri.
L. I servizi segreti stranieri perché avrebbero dovuto entrarci? Perché mai pensare che, quanto più è
oscuro un episodio, tanto più deve esserci dietro un complotto planetario? È vero che carabinieri e
polizia fecero a gara a chi prendeva (o faceva fuori) Giuliano, non disdegnando di usufruire dei
servizi della mafia. Ma siamo di fronte a un altro possibile complotto, forse autonomo da quello
intessuto dai mandanti della strage di Portella. Parlo del mandato di prendere Giuliano vivo o morto,
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