Page 197 - Gomorra
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Ogni tanto qualcuno si chiude. Da queste parti poi non è raro sentirsi dire una cosa
            del  genere.  Ogni  volta  che  ascolto  quest'espressione  mi  viene  in  mente  Giustino
            Fortunato, che nei primi anni del '900 - per conoscere la situazione dei paesi della
            dorsale  dell'Appennino  meridionale  -  aveva  camminato  a  piedi  per  mesi,
            raggiungendoli  tutti,  soggiornando  nelle  case  dei  braccianti,  ascoltando  le
            testimonianze dei contadini più rabbiosi, imparando che voce e che odore avesse la
            questione meridionale. Quando poi era diventato senatore, gli capitava di tornare in

            questi  paesi  e  chiedeva  delle  persone  che  aveva  incontrato  anni  prima,  quelle  più
            combattive che avrebbe voluto coinvolgere nei suoi progetti politici di riforma. Spesso
            però i parenti gli rispondevano: "Quello s'è chiuso!". Chiudersi, diventare silenzioso,
            quasi muto, una volontà di scappare dentro di sé e smettere di sapere, di capire, di fare.
            Smettere di resistere, una scelta di eremitaggio presa un momento prima di sciogliersi

            nei compromessi dell'esistente. Anche Cipriano s'era chiuso. Mi raccontavano in paese
            che aveva iniziato a chiudersi da quando una volta si era presentato a un colloquio di
            lavoro,  per  essere  assunto  come  responsabile  delle  risorse  umane  in  un'azienda  di
            spedizioni  di  Frosinone.  Leggendo  il  suo  curriculum  ad  alta  voce,  l'esaminatore  si
            fermò sul paese di residenza.

                 "Ah sì, ho capito da dove viene! È il paese di quel boss famoso... Sandokan, no?"

                 "No, è il paese di Peppino Diana!"
                 "Chi?"

                 Cipriano  si  era  alzato  dalla  sedia  e  se  n'era  andato.  Per  vivere  aveva  preso  in
            gestione  un'edicola  a  Roma.  Ero  riuscito  a  sapere  l'indirizzo  da  sua  madre,  l'avevo
            incontrata per caso, mi ero trovato dietro di lei in fila al supermercato. Doveva averlo

            avvertito del mio arrivo perché Cipriano non rispondeva al citofono. Sapeva forse di
            cosa  gli  volevo  parlare.  Ma  avevo  aspettato  sotto  casa  sua  per  ore,  ero  pronto  a
            dormire sul suo pianerottolo. Si decise a scendere. A stento mi salutò. Entrammo in un
            piccolo  parco  vicino  a  casa  sua.  Mi  fece  prendere  posto  su  una  panchina,  aprì  un
            quaderno a righe, uno di quelli delle elementari con le righe striminzite e su quelle
            pagine, scritte a mano, c'era l'arringa. Chissà se tra quei fogli c'era anche la grafia di
            don Peppino. Non osai chiederlo. Un discorso che avrebbero voluto firmare insieme.


                 Ma poi erano arrivati i killer, la morte, le calunnie, la solitudine abissale. Iniziò a
            leggere con un tono da frate eretico, con dei gesti da dolciniano in giro per le strade ad
            annunciare l'Apocalisse:


                 “Non  permettiamo  uomini  che  le  nostre  terre  diventino  luoghi  di  camorra,
            diventino  un'unica  grande  Gomorra  da  distruggere!  Non  permettiamo  uomini  di
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