Page 180 - Gomorra
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Don Peppino Diana





                 Quando  penso  alla  lotta  ai  clan  di  Casal  di  Principe,  di  San  Cipriano,  di
            Casapesenna  e  in  tutti  i  territori  egemonizzati  da  loro,  da  Parete  a  Formia,  penso
            sempre ai lenzuoli bianchi. Ai lenzuoli bianchi che pendono da ogni balcone, legati a

            ogni ringhiera, annodati a tutte le finestre. Bianco, tutto bianco, una pioggia di stoffe
            candide. Furono il rabbioso lutto issato quando si svolsero i funerali di don Peppino
            Diana. Avevo sedici anni, era il marzo 1994. Mi svegliò mia zia, come sempre, ma con
            una violenza strana, mi svegliò tirandomi il lenzuolo in cui ero rannicchiato, come si fa
            quando si srotola un salame dalla carta. Quasi cascai giù dal letto. Mia zia non disse
            niente e camminava facendo un rumore fortissimo, come se sfogasse tutto il nervosismo
            sui talloni. Annodava questi lenzuoli alle ringhiere di casa, stretti, neanche un tornado

            avrebbe  potuto  scioglierli.  Spalancava  le  finestre,  faceva  entrare  le  voci,  uscire  i
            rumori di casa, persino gli stipi dei mobili erano aperti. Ricordo il fiume di scout che
            avevano  dismesso  la  loro  aria  scanzonata  da  bravi  figli  di  famiglia  e  sembravano
            portare annodata ai loro bizzarri foulard gialli e verdi una rabbia forte, perché don
            Peppino era uno di loro. Mai più mi è capitato di rivedere scout così nervosi e così
            poco attenti a tutte quelle forme di ordine e compostezza che invece li accompagnano

            sempre nelle loro lunghe marce. Di quel giorno ho solo ricordi a chiazze, una memoria
            a pelle di dalmata. Don Peppino Diana ha avuto una storia strana, una di quelle che una
            volta conosciuta, bisogna poi conservarla da qualche parte del proprio corpo. In fondo
            alla gola, stretta nel pugno, vicino al muscolo del petto, sulle coronarie. Una storia
            rara, sconosciuta ai più.

                 Don Peppino aveva studiato a Roma e lì doveva rimanere a fare carriera lontano

            dal paese, lontano dalla terra di provincia, lontano dagli affari sporchi. Una carriera
            clericale, da buon figlio borghese. Ma aveva d'improvviso deciso di tornare a Casal di
            Principe come chi non riesce a togliersi di dosso un ricordo, un'abitudine, un odore.
            Forse come chi ha perennemente la sensazione smaniosa di dover fare qualcosa e di
            non  riuscire  a  trovare  pace  fin  quando  non  la  realizza  o  almeno  tenta  di  farlo.  Don

            Peppino divenne giovanissimo sacerdote della chiesa di San Nicola di Bari, una chiesa
            dalla struttura moderna che sembrava, anche nell'estetica, perfetta per la sua idea di
            impegno. Girava per il paese in jeans e non in tonaca come era accaduto sino ad allora
            ai preti che si portavano addosso un'autorità cupa come l'abito talare. Don Peppino non
            orecchiava  le  beghe  delle  famiglie,  non  disciplinava  le  scappatelle  dei  maschi,  né
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