Page 17 - Gomorra
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alla lucentezza dei sacchetti della spazzatura. Quelli neri. E piuttosto che d'acqua, il
            mare  del  golfo  sembra  un'enorme  vasca  di  percolato.  La  banchina  con  migliaia  di
            container multicolori pare un limite invalicabile. Napoli è circoscritta da muraglie di
            merci. Mura che non difendono la città, ma al contrario la città difende le mura. Non ci
            sono eserciti di scaricatori, né romantiche plebaglie da porto. Ci si immagina il porto
            come luogo del fracasso, dell'andirivieni di uomini, di cicatrici e lingue impossibili,
            frenesia  di  genti.  Invece  impera  un  silenzio  da  fabbrica  meccanizzata.  Al  porto  non

            sembra esserci più nessuno, i container, le navi e i camion sembrano muoversi animati
            da un moto perpetuo. Una velocità senza chiasso.

                 Al porto ci andavo per mangiare il pesce. Non è la vicinanza al mare che fa da
            garante di un buon ristorante, nel piatto ci trovavo le pietre pomici, sabbia, persino

            qualche alga bollita. Le vongole come le pescavano così le giravano nella pentola. Una
            garanzia di freschezza, una roulette russa d'infezione. Ma ormai tutti si sono rassegnati
            al sapore d'allevamento che rende simile un totano a un pollo. Per avere l'indefinibile
            sapore  di  mare  bisognava  in  qualche  modo  rischiare.  E  questo  rischio  lo  correvo
            volentieri.  Mentre  ero  al  ristorante  del  porto,  chiesi  informazioni  per  trovare  un
            alloggio da affittare.


                 "Non ne so niente, qui le case stanno sparendo. Se le stanno prendendo i cinesi..."

                 Un tizio che troneggiava in mezzo alla stanza, grosso ma non abbastanza per la voce
            che aveva, invece lanciandomi un'occhiata urlò: "Forse qualcosa ancora c'è!".

                 Non disse altro. Dopo aver entrambi finito di pranzare ci indirizzammo lungo la via

            che  costeggia  il  porto.  Non  ci  fu  neanche  bisogno  che  mi  chiedesse  di  seguirlo.
            Arrivammo  nell'atrio  di  un  palazzo  quasi  fantasma,  un  condominio  dormitorio.
            Salimmo  al  terzo  piano  dove  c'era  l'unica  casa  di  studenti  sopravvissuta.  Stavano
            mandando  via  tutti  per  lasciare  spazio  al  vuoto.  Nelle  case  non  doveva  esserci  più
            nulla. Né armadi, né letti, né quadri, né comodini, neanche pareti. Doveva esserci solo
            spazio,  spazio  per  i  pacchi,  spazio  per  gli  enormi  armadi  di  cartone,  spazio  per  le
            merci.


                 In casa mi assegnarono una specie di stanza. Meglio definibile come uno stanzino
            con lo spazio appena necessario per un letto e un armadio. Non si parlò di mensile, di
            bollette  da  spartire,  di  connessioni  e  allacci  telefonici.  Mi  presentarono  a  quattro
            ragazzi, miei coinquilini e tutto finì lì. Mi spiegarono che nel palazzo era l'unica casa

            realmente abitata e che serviva per dare alloggio a Xian, il cinese che controllava "i
            palazzi". Non dovevo pagare alcun fitto, ma mi chiesero di lavorare ogni fine settimana
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