Page 132 - Gomorra
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contro i pentiti è celebrato. La folla preme, la tensione è altissima. Pensare che una
ragazzina è morta perché aveva deciso di ascoltare musica assieme alle amiche, sotto
un portone in una serata di primavera, fa girare le viscere. Ho la nausea. Devo restare
calmo. Devo capire, se possibile. Annalisa è nata e vissuta in questo mondo. Le sue
amiche le raccontavano delle fughe in moto con i ragazzi del clan, lei stessa si sarebbe
forse innamorata di un bel ragazzetto ricco, capace di far carriera nel Sistema o forse
di un bravo guaglione che si spaccava la schiena tutto il giorno per quattro soldi. Il suo
destino sarebbe stato quello di lavorare in una fabbrica in nero, di borse, dieci ore al
giorno per cinquecento euro al mese. Annalisa era impressionata dal marchio sulla
pelle che hanno le operaie che lavorano il cuoio, nel suo diario era scritto: "le ragazze
che lavorano con le borse hanno sempre le mani nere, stanno per tutto il giorno chiuse
in fabbrica. C'è anche mia sorella Manu ma almeno a lei il datore di lavoro non la
costringe a lavorare anche quando non si sente bene". Annalisa è divenuta simbolo
tragico perché la tragedia si è compiuta nel suo aspetto più terribile e consustanziale:
l'assassinio. Qui però non esiste attimo in cui il mestiere di vivere non appaia una
condanna all'ergastolo, una pena da scontare attraverso un'esistenza brada, identica,
veloce, feroce. Annalisa è colpevole d'essere nata a Napoli. Nulla di più, nulla di
meno. Mentre il corpo di Annalisa nella bara bianca viene portato via a spalla, la
compagna di banco lascia trillare il suo cellulare. Squilla sul feretro: è il nuovo
requiem. Un trillo continuo, poi musicale, accenna una melodia dolce. Nessuno
risponde.