Page 891 - Shakespeare - Vol. 4
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utopia: «Nel mio stato / Governerei eseguendo tutto / Contrariamente agli
          usi... Sarei un principe così perfetto, sire, / Da superare l’Età dell’Oro» (II, i,
          143 sgg.). Ma proprio Gonzalo, nel quinto atto, dirà, alla fine dell’esperienza:
          «Qui risiede ogni tormento e affanno, / Ogni meraviglia e ogni terrore: / Una

          potenza celeste / Ci aiuti a uscire / Da questa terra spaventosa!» (V, i, 104-
          6). Ecco: la parabola descritta da Gonzalo è emblematica di ciò che avviene
          nella Tempesta.  L’avventura  sull’isola  frantuma  l’utopia  di  Gonzalo  come
          quella di tutti i personaggi; solo Miranda − la più giovane, la più innocente −

          ne conserva una e dirà, scorgendo intorno a sé quell’umanità di cui finora ha
          conosciuto così pochi esemplari: «O meraviglia! Quante magnifiche creature /
          Ci sono qui, e com’è bello / L’uomo. / O splendido nuovo mondo / Che ha
          gente  simile  dentro  di  sé»  (V,  i,  181-4).  Ma  subito  esclama  Prospero:  «È

          nuovo per te!» (v. 184). Anche l’utopia di Miranda si è, se non altro, incrinata.
          Ma con le utopie e le illusioni dei personaggi crollano, su quest’isola nuda,
          altri miti, altre utopie, che non sono dei personaggi soltanto, ma della cultura
          e della società in cui questa «favola» è radicata. Crolla appunto il mito del

          Nuovo  Mondo,  di  quell’America  come  terra  promessa,  come  terra  in  cui
          rinnovare  un’Età  dell’Oro  che  vive  in  tanta  pubblicistica  e  letteratura  del
          periodo − l’isola non è l’Arcadia e non è il Giardino dell’Eden, come sembra; il
          peccato è avvenuto, il paradiso è perduto definitivamente e sul Nuovo Mondo

          si riproducono i meccanismi di violenza, i peccati, i fratricidi del Vecchio (e
          ampiamente lo dimostrerà, del resto, la storia americana). Crolla il mito di
          una  colonizzazione  motivata  dalla  diffusione  del  bene  e  della  cultura  −
          Shakespeare ben sa quali forze la muovano, e la colonizzazione, sull’isola, è

          la violenza di Prospero (come sarà la violenza di Robinson), è il dramma di
          Caliban, è il lavoro cui questi è condannato, con quella legna da spaccare che
          diventa  uno  dei  simboli  centrali  dell’opera.  Crolla  il  mito  di  un’aristocrazia
          capace  di  realizzare  un  ideale  umano  di  totalità,  di  armonia,  in  cui  il  duca

          Prospero possa essere a un tempo buon governante e scienziato, buon padre
          e  uomo  di  cultura.  Insomma,  se  nelle  opere  shakespeariane  dell’inizio  del
          Seicento  il  teatro  era  stato  il  terreno  in  cui  si  dissolvevano  −  di  fronte  al
          progredire  della  scienza,  all’avanzare  di  nuove  classi,  alle  spinte  e

          trasformazioni economiche e sociali − i resti del Medioevo, qui si dissolvono,
          come  osserva  Kott,  quelle  utopie  rinascimentali  che  avevano  trovato  in  un
          Faust il loro più alto simbolo drammatico. L’incrinatura individuata da Amleto
          si  è  allargata:  sull’isola  non  c’è  più  posto  per  l’egemonia  di  re  e  maghi  e

          teatranti: la tempesta che Prospero stesso scatena − questa tempesta che è
          la più reale e la più simbolica, la più scarna e la più pregnante delle immagini
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