Page 887 - Shakespeare - Vol. 4
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crea illusioni, fugge dalla realtà; dall’altro un teatro che la realtà accetta e
          rappresenta  anche  se  è  dolorosa  ed  è  legata,  come  qui,  al  pensiero  della
          morte e della malattia. Cosicché quando Prospero, in un altro mirabile brano
          (V, i, 33 sgg.: «Voi elfi delle colline, dei ruscelli, / Degli immobili laghi e delle

          selve...»)  che  molto  si  ispira  peraltro  alle Metamorfosi  ovidiane  −  grande
          fonte di tutto il Medioevo e di tutto il Rinascimento −, dopo aver esaltato la
          propria «arte potente», vi rinuncia ed esclama: «Ma questa rozza magia / Io
          adesso abiuro... Spezzerò la mia verga, / La seppellirò / Mille tese sotto terra

          / E più in fondo / Di quanto mai scandaglio si sia spinto / Annegherò il mio
          libro...» (V,  i,  50  sgg.)  sarebbe,  a  mio  parere,  sommamente  errato  vedere
          nella  sua  rinuncia  la  rinuncia  stessa  di  Shakespeare.  Certo  i  motivi  non
          mancano, per un’interpretazione come questa, ché sarebbe fin troppo facile

          indicare le somiglianze tra Prospero e il suo autore, e leggere la Tempesta
          non solo in chiave del rapporto, o del conflitto, tra l’artista e la sua materia,
          ma  proprio  del  rapporto,  o  del  conflitto,  tra  il  drammaturgo  William
          Shakespeare e la sua materia. Tale rapporto c’è, e tuttavia, se spesso le due

          figure  si  identificano,  esse  fondamentalmente  divergono.  La  rinuncia  di
          Prospero non è quella di Shakespeare perché il teatro di Prospero (il teatro
          della magia, dell’artificio, delle macchine, dell’illusione − e insomma il teatro
          barocco  che  proprio  al  Blackfriars  e  a  Corte  si  andava  affermando,

          specialmente  con  Beaumont  e  Fletcher  e  con  il  contributo  scenografico  di
          Inigo  Jones)  non  è  quello  di  Shakespeare,  che  lo  dissacra  e  rifiuta  nel
          momento  stesso  in  cui  (e  l’ironia  è  qui  suprema  −  qui  come  in  tutta  la
          Tempesta, va detto) ne usa i mezzi, gli artifici, le macchine, per contrapporvi

          un  teatro  legato  all’esperienza,  alla  realtà,  forse  più  vicino  al  Globe
          («Theatrum  Mundi»)  che  al  Blackfriars  e  al  teatro  di  corte  (e  l’isola,  con
          un’azione scarna che si svolge tutta all’aperto, tra terra, cielo e mare, e una
          serie  di masques e «illusioni» che vi immettono la dimensione dell’artificio,

          del «chiuso», davvero sembra la sintesi scenica dei due modi di far teatro che
          in  quegli  anni  si  contrappongono).  Ed  ecco  allora  che  l’epilogo  pronunciato
          alla fine dell’opera da Prospero (e che è stato sovraccaricato, tra l’altro, di
          significati religiosi che un’opera come questa, tutta laica, tutta immanente,

          certo non ha) non può essere interpretato come il definitivo, personale saluto
          di Shakespeare al suo pubblico prima di ritirarsi a Stratford-upon-Avon. Non è
          Shakespeare ad avere «spiriti da comandare» e «arte per incantare» («Ora
          mi mancano / Spiriti da comandare, / Arte per incantare, / E la mia fine / È la

          disperazione...», Epilogo 13 sgg.) ma è Prospero − ed è lui, dunque, a dover
          uscire di scena: «Ora i miei incantesimi / Si sono tutti spenti, / La forza che
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